Uno dei più grandi storici della filosofia americana, John McDermott, sostiene che tra i filosofi americani «Peirce era un genio, James uno scrittore, ma Dewey uno che ti aiuta a sopravvivere».

C’è chi dice anche che il nostro sarà il secolo di Dewey. Finita la diatriba analitici-continentali – i difensori del metodo (scientifico, se possibile) e del senso comune contro gli araldi dell’interpretazione, precisione contro significato – sarebbe l’ora del «pragmatic turn», la svolta pragmatista. In effetti, le due correnti principali della filosofia novecentesca hanno inserito nei loro discorsi molti elementi che devono considerare il contesto pratico, l’azione, la narrazione, gli effetti interpretativi, l’applicazione.



Dewey, c’è poco da discutere, l’aveva detto con un mezzo secolo di anticipo, come ben si ricorda nel seminario a scadenza mensile organizzato a Napoli da Maura Striano, una delle più brillanti studiose di Dewey, in occasione del centocinquantenario della nascita. Ciò che Dewey aveva anticipato era la necessità di non dividere la teoria e la pratica, le scienze umane da quelle naturali, il metodo della conoscenza dalle sue applicazioni. Aveva provato a dare un quadro della ricerca umana che fosse unitario e applicabile a tutte le occasioni della vita, dal cercare le chiavi di casa alla ricerca del senso dell’esistenza, dalla scienza alla metafisica.



L’idea era titanica e Dewey un grande scrittore. Il metodo di ricerca si basa su un lungo cammino che porta i dati a diventare oggetti e poi esperimenti di verifica. Forse c’era un comportamentismo di base o un retaggio positivista nell’uso dei dati. Ma non è questo l’essenziale: Dewey come tutti i pragmatisti era un fiero avversario del positivismo proprio per quel mito del “dato” puro, scevro da interpretazioni concettuali che era loro intollerabile perché «bloccava la via della ricerca». Non ci sono dati che parlano di per sé, i dati parlano dentro un’esperienza e possono farsi capire perché sono segni. L’essenziale del metodo è qui: a un certo punto esso implica che il dato diventi segno. È solo a questo livello che il dato può essere “trattato” dall’intelligenza. Ed è qui la grande debolezza del mirabile progetto.



Il segno di Dewey non “nasce” dalla realtà e non la rappresenta per similarità (come invece diceva Peirce), ma è solo sovrapposto a essa meccanicamente (tecnicamente, è un indice). Da questa sovrapposizione si sviluppa il trattamento intelligente che trasforma il segno in simbolo, cioè in pensiero. La realtà però è già infinitamente lontana, non c’è nessun rapporto tra essa e la nostra mente. È per questo che Rorty e molti altri neo-pragmatisti sostengono che in fondo Dewey era favore di una totale arbitrarietà delle interpretazioni. Non leggono le intenzioni del filosofo americano ma forse, più degli altri, ne intuiscono – al di là delle dichiarazioni di realismo metafisico del suo autore – quel gap, quel salto tra realtà e pensiero che connota la radice profonda di ogni nominalismo. Per il nominalismo così inteso la realtà è in fondo inconoscibile non perché «non ci sia» ma perché il metodo per arrivarvi deve comunque fare un “salto” dalla mente alle “cose”.

La realtà rimane in ultimo estranea e perciò potenzialmente nemica. Come dicono le prime bellissime e inquietanti pagine di The Quest for Certainty, che spiegano il sorgere della filosofia come “controllo” in un mondo “estraneo”: «La fortuna determina il nostro successo e il nostro fallimento più dei nostri atti e delle nostre intenzioni. Il patos di aspettative incompiute, la tragedia della sconfitta dei nostri ideali o propositi, la catastrofe degli accidenti, sono all’ordine del giorno. Controlliamo le condizioni, facciamo le scelte più sagge che possiamo pensare, agiamo e poi dobbiamo affidarci al fato, alla fortuna o alla provvidenza. I moralisti ci dicono di agire conformemente ai fini ma poi ci informano che i fini sono sempre incerti. Giudicare, pianificare, scegliere, per quanto condotti con attenzione ed eseguiti con prudenza, non sono mai i soli determinanti dell’esito. Forze naturali indifferenti ed estranee, condizioni imprevedibili intervengono e sono decisive». Dewey forse aiuta a sopravvivere, ma non a vivere senza paura.

(Giovanni Maddalena)