Se nel panorama letterario d’oggi la maggior parte degli scrittori è pronta ad auto dichiararsi “controcorrente”, risultando al massimo una brutta copia del peggior Bukowski, fra quelli che fanno a meno di dichiararsi “qualcosa” spicca il premio Campiello Vitaliano Trevisan. Veneto, schietto come pochi, diretto e privo di qualsivoglia affettazione, ha appena presentato alle stampe “Grotteschi e arabeschi” la sua ultima fatica. Una raccolta di racconti, pubblicata da “Einaudi Stile Libero”, dal sapore forte e legata a doppio filo con l’opera di Edgar Allan Poe, scrittore al quale Trevisan si ispira spesso. Abbiamo voluto intervistarlo per cercare di scoprire di più di questo personaggio oltre che dai suoi racconti. Trevisan ha un passato molto interessante e un presente che gli consente di non risparmiare lodi e critiche proprio a nessuno.



 

Vitaliano Trevisan, come è diventato uno scrittore?

In un modo un po’ particolare. Infatti, sebbene fin da piccolo fossi convinto che sarei diventato scrittore, ho aspettato 33 anni prima di cominciare. Fino ad allora, fatta eccezione per le lettere d’amore (molte scritte su commissione) o alcune relazioni tecniche dovute al mio lavoro di geometra, non ho scritto nulla. I motivi di un’attesa così lunga vanno dalla mia condizione familiare al ceto sociale cui appartengo. Non si può dire difatti ch’io sia cresciuto in un ambiente che mi incoraggiasse particolarmente in questa direzione.



“Grotteschi e arabeschi” la sua ultima raccolta di racconti contiene un costante riferimento a Edgar Allan Poe. Per quale motivo si è ispirato a questo scrittore?

In primo luogo perché Allan Poe scrive magnificamente e la sua capacità descrittiva mi ha sempre ispirato. Devo aggiungere che nel mio rapporto con Poe è stata fondamentale la lettura che ne fece Carmelo Bene. Grazie alla lettura di una sua intervista, il mio interesse per lo scrittore americano rinacque in età matura. Ripresi in mano tutta l’opera che avevo letto durante l’adolescenza, quando avevo circa quindici anni. A partire da questo “nuovo incontro” ho deciso di scrivere ispirandomi alla “luce” di Edgar Allan Poe, una luce che domina tutte le questioni affrontate in questi racconti che ho scritto nell’arco di quattro anni.



Ci sono anche altri scrittori cui lei si è ispirato? Ad esempio da alcuni atteggiamenti ossessivo compulsivi di qualche personaggio si potrebbe pensare a Dostoevskij… 

Dostoevskij è senz’altro un mio riferimento. Ma a lui vanno aggiunti altri scrittori. In primo luogo Samuel Beckett e l’austriaco Thomas Bernhard. Questi, insieme al pittore e in un certo senso “scrittore”, Francis Bacon, costituiscono le mie principali fonti d’ispirazione. Poi non posso non citare Chateaubriand, e Benjamin Constant che è un mio vero e proprio “pallino”.

Nel racconto Il barilozzo di Ammontillado cita anche Walter Benjamin

Walter Benjamin è spesso citato per il saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, che ho citato con ironia. Peraltro, a mio avviso, quel saggio non è nemmeno una delle sue opere migliori.

In questo racconto lei solleva una critica a quelli che lei ha definito “scrittori con l’eskimo”. Secondo lei sono ancora così tanti?

Sì, senza alcun dubbio. Anche se quell’espressione non è mia, ma di una giornalista.

Ne parlavo proprio ieri con un mio amico. Secondo lui si tratta di una categoria definibile come “criptofascista”. Si tratta di individui apparentemente aperti e dalle larghe vedute, ma in realtà molto settari e classisti. Non vorrei citare nessun collega ma è un fatto che gran parte degli scrittori che predicano l’accoglienza del diverso o fanno gli ambientalisti, si rivelano poi l’esatto contrario umano dei modelli che esaltano.

Che cosa ha generato questo tipo di establishment culturale?

Senza andare troppo in là direi semplicemente che un simile modo di fare paga. E paga in termini di approvazione da parte del pubblico.

Faccio un esempio. Quando dalle mie parti venne realizzata la nuova base USA Dal Molin, un sacco di cosiddetti intellettuali si schierarono dalla parte di quelli che protestavano. Personalmente preferisco non prendere alcuna posizione.Come scrittore mi tengo fuori dalla politica e, come scelta artistica, non voto. Purtroppo molti utilizzano invece qualsiasi protesta demagogica per farsi belli. Anche se poi non adottano alcuna autentica morale nella vita privata. Mi ricordano un po’ alcuni attori di Hollywood, iperconsumisti per definizione, che spesso si schierano col populismo pseudoecologista genericamente di sinistra.

Da un punto di vista storico si può dire che la genesi di questi scrittori è cominciata con il ’68?

Sicuramente, anche perché, vedendo dove sono ora quelli che allora indossavano l’eskimo ed erano in prima fila alle manifestazioni, è facile rendersi conto di chi abbia davvero pagato per quegli anni. Questo è un meccanismo per cui si riproduce e si ripropone sempre il solito modello nella storia: quello dell’“armiamoci e partite”. A incitare era sempre il solito gruppo di sessantottini dotato di “paracadute” che ha spinto avanti il popolo senza mai compromettersi fino in fondo; gente che poi è diventata democratica di sinistra, oppure di destra. Comunque “democratica”.

Non voglio generalizzare, ma quando uno si camuffa da proletario a me, proprio in quanto proletario vero, non va giù. Trovo molto offensivo ad esempio che una persona non si curi i denti per una questione estetica, per fare il trasandato alla Wystan Auden, quando ci sono individui che invece non possono letteralmente permettersi il dentista.

Un aspetto interessante è il fatto che lei dichiara di contrapporre a questo ragionamento l’osservazione della realtà. Che cosa intende precisamente?

Intendo viverci dentro, perché è davvero difficile essere davvero qualcosa o qualcuno. Io sono stato un operaio. Un conto è esserlo stato veramente, un altro è farlo per tre mesi per poi scrivere un reportage. Il mio linguaggio nasce dall’esperienza. Ho fatto il lavoratore dipendente fino a 42 anni. E questo mi dà un bagaglio lessicale, ma non solo, notevole per l’attività che svolgo adesso. In un certo senso è stato un privilegio aver vissuto in un ambiente difficile.

Lei ha recentemente anche criticato sia il libro sia il film “Gomorra”. Per quale motivo?

In primo luogo mi sembra che non aggiunga nulla di nuovo alla coscienza che abbiamo del fenomeno. Sono d’accordo con Pasquale Squitieri, quando dichiara le proprie perplessità sull’effettiva utilità di un film simile. Inoltre non credo che sia un valido esempio per i giovani l’ottenere successo combattendo la camorra in questo stile. Falcone o Borsellino hanno davvero combattuto la mafia e andavano in giro dicendo che non c’era bisogno di eroi per farlo. In questo senso il successo di Gomorra mi suona un po’ ambiguo.

È una critica che riguarda soltanto Saviano?

No, in generale riguarda tutti coloro che sono affetti dal cosiddetto virus della narrazione, una tendenza che sta infesta anche gli stessi giornali, telegiornali , in generale, l’informazione. Preferirei invece che le notizie riguardassero più da vicino i fatti, tendendo il più possibile all’obbiettività. Certo, essere obiettivi è impossibile, ma non è una buona ragione per diventare spudoratamente partigiani.