È appena uscita un’interessante monografia di Maurizio Pistelli su Carlo Michelstaedter. Poesia e ansia di assoluto (Donzelli editore).

Se si potesse inscrivere la personalità di Carlo Michelstaedter in due elementi della natura, quelli più adeguati potrebbero essere la nebbia e il mare.

Vita breve la sua: nasce a Gorizia nel 1887 e lì muore suicida nel 1910, partecipe di quella svolta tra due secoli che, per molteplici ragioni culturali e sociali, fece avvertire a numerosi intellettuali lo smarrimento che di lì a poco avrebbe travolto l’Europa. È tra i maggiori esponenti di un gruppo di personalità dell’estremo lembo orientale della penisola (basti pensare a Svevo, a Saba, a Slataper, a Jahier, a Marin) che, grazie agli scambi con la cultura mitteleuropea e con l’ambiente toscano, elabora l’appartenenza alle proprie radici in opere così significative da trasformare la terra natale in uno dei punti più fecondi della produzione letteraria di quel periodo.



Il poeta nasce da una agiata famiglia ebraica di origine tedesca, ma italiana per lingua e sentimenti, ultimo di quattro fratelli. È l’unico ad avere propensione per gli studi, che compie dopo il liceo nella città natale, dapprima a Vienna e poi a Firenze, dove raccoglie l’insegnamento di studiosi di alta statura come Villari, Comparetti, Rajna, Parodi, Mazzoni.



Rimane affascinato dalla parlata toscana, dalla sua arte, dalla vivacità umana di una città così differente dalla serenità veneta e dalla compostezza austriaca della natia Gorizia. È qui che si compie la sua maturazione culturale. Anche gli amori sbocciati a Firenze, di cui resta precisa traccia nelle poesie di quel periodo, hanno una decisa componente intellettuale. Legge molto. Se le sue prime rime rivelano, come è naturale, debiti carducciani e dannunziani, gli studi e le amicizie di Firenze gli schiudono il mondo letterario di Foscolo, di Leopardi, di Balzac, di Zola, di Goethe, di Ibsen, di Tolstoj, ma anche quello musicale del prediletto Beethoven, degli sport praticati con grande gioia, delle letture filosofiche dei greci, di Hegel, di Marx, di Nietzsche, di Schopenhauer.



Tornato a Gorizia nel 1908 per completare la tesi, ritrova gli amici e per breve tempo ricostruisce con loro un sodalizio che alterna escursioni in montagna e discussioni filosofiche. Ma ben presto rimane solo con la propria inesauribile ricerca intellettuale, in cui l’istanza etica prevale sempre più sull’estetismo dannunziano ancora dominante, come rivelano le sue critiche teatrali.

In molte sue liriche compaiono la nebbia e il mare, come in questa, intitolata All’Isonzo, scritta pochi giorni prima della morte:

Dalle nevose gole, dai torbidi

monti lontani con lena rapida,

con aspro sibilo soffia la raffica,

rompe la densa greve nebbia,

stringe le basse grigie nubi

e le respinge in onde gravide.

Passa radendo sui pioppi tremoli

sul nero piano incombe il peso

della ciclopica lotta dell’etere.

Ma a lei più forte risponde l’impeto

selvaggio e giovine del fiume rapido

cui le corrose rive trattengono.     …

E al mar l’annuncio porta della lotta

che nebbia e vento nel ciel combattono,

al mar l’annuncio porta del tumulto

che in cor m’infuria quando la nausea,

quando il torpore, il dubbio, l’abbandono

per la tua vista, Argia, più fervido

l’ardir combatte e sogna il mare libero.

La nebbia allude al conflitto tra il pensiero e l’onda malinconica del sentimento della vita, il mare segna l’approdo sperato di tale conflitto nella vastità della conoscenza. Si rivela qui una personalità pugnace, che malgrado le sconfitte non rinuncia a cercare un senso, a inoltrarsi nel grande mare del significato delle cose.

La sua sventurata fine non è stata probabilmente una resa. In un periodo in cui l’eroe è l’inetto a vivere, la sua figura appare, grazie al coraggio e alla nobiltà intellettuale, non quella di uno sconfitto, ma quella di un vincente. Non è la velleità un po’ dannunziana degli esordi; in una precoce maturità è la ricerca della verità al di là degli accomodamenti borghesi. Il titolo della sua tesi di laurea, dedicata alla madre amatissima e in seguito morta ad Auschwitz, “La persuasione e la rettorica”, dice molto dei vasti interessi di un intellettuale al confine tra poesia e filosofia.