Timothy Verdon è a Milano per una lectio magistralis sull’ultima Cena di Leonardo da Vinci. L’iniziativa è dell’Associazione culturale Sant’Anselmo e si pone all’interno di una serie di appuntamenti intitolati «Imago veritatis. L’arte come via spirituale».

Cosa significa che l’arte è una «via spirituale»?



L’opera bella, frutto della creatività umana, è da sempre uno dei molti modi di cui la Chiesa si serve per condurre le persone a quelle verità che essa ritiene fondamentali per la vita, la salvezza, la beatitudine. Si tratta di porre davanti agli occhi dei fedeli Colui che è il Verbo che si è fatto carne e quindi di comunicare la realtà di Cristo in un modo particolarmente appropriato al messaggio stesso. La comunicazione solo verbale o scritta non basta; i lettori di testi teologici sono infinitamente meno di coloro che entrano in una chiesa, vedono mosaici, affreschi, vetrate e ne vengono in qualche modo toccati. Il grande mezzo di comunicazione di cui la Chiesa si è servita fin dall’inizio è l’arte visiva, che si inserisce nella logica della grande “arte” che la Chiesa stessa ha inventato: la liturgia. Per secoli le opere d’arte sono state al servizio della liturgia o strettamente associate ad essa.



Per la nostra mentalità soggettivistica è scandaloso questo “usare” dell’arte

Ma un bambino “usa” della madre perché deve vivere e la madre è contenta che suo figlio dia per scontato che lei sia lì, pronta a fare tutto per lui. Noi oggi pensiamo all’uso in un senso puramente funzionale, dissociato dall’amore, da una finalità così importante che permette di “usare” non dico le persone, ma certamente il loro talento. Uno scopo così importante che porta l’uomo a lasciarsi usare, a spendere se stesso per questa finalità di suprema importanza.

Spesso si vedono turisti di fronte ad opere di contenuto religioso che evidentemente non le capiscono e si fermano agli aspetti estetici o storici; difficilmente si addentrano nella dimensione spirituale. Qual è il lavoro da fare?



Questa è precisamente la motivazione per cui Lucetta Scaraffia, Andrea Gianni ed io abbiamo pensato ad una serie di interventi che ha come scopo di sensibilizzare le persone a quei significati che vanno oltre quelli abitualmente presentati nei manuali o nelle guide. Quando un artista lavora per la Chiesa, le sue scelte estetiche sono calibrate sulla finalità per cui il committente vuole l’opera. Almeno fino al Settecento gli artisti erano, dopo i sacerdoti, le persone meglio informate sui soggetti biblici e teologici; era il loro lavoro. Perché, dunque, l’aspetto del contenuto religioso è stato rimosso dalla critica? Le risposte sono varie, ma certamente va ricordato che quando viene inventata la storia dell’arte come disciplina essa risente di un clima anticlericale, per cui c’è un calcolato disinteresse per la dimensione contenutistica. Così, si è sostenuto che Leonardo non fosse affatto interessato al soggetto sacro, che viene declassato a dettaglio o a necessità deplorevole, un pretesto per fare altre cose. In qualche caso questo può essere vero, ma ciò non ci esime dalla necessità di prendere sul serio il dato che per anni un artista si dedica a un tema religioso. Per restare all’esempio leonardesco a Santa Maria delle Grazie di Milano, dobbiamo quindi chiederci: quali erano gli usi rituali dei frati in rapporto alla Cena del Signore e alla loro cena? Scopriamo, così, che al refettorio, dove c’è l’affresco di Leonardo, i frati non entravano in modo casuale, ma in processione e prendevano posto nello stesso ordine in cui erano seduti in chiesa. Non è possibile dissociare il pasto comune dal pasto sacramentale cui i monaci hanno appena partecipato. L’artista – anche se non era direttamente interessato a questi aspetti, cosa che non possiamo dimostrare – ha sicuramente preso in considerazione queste dimensioni nelle quali la sua opera doveva inserirsi.

Cosa fa dunque Leonardo?

Gli artisti detta tradizione a lui nota hanno scelto di raffigurare il momento in cui Cristo annuncia il tradimento. Essi seguono uno schema che – lo sappiamo da un disegno conservato a Venezia – anche Leonardo ha dapprima considerato: ci sono dodici uomini (Gesù e undici apostoli) al di là della mensa e Giuda di qua, colti nell’attimo in cui Gesù dà il boccone al traditore. Poi però Leonardo ha cambiato schema: anche Giuda è al di là del tavolo e Cristo non gli dà il boccone, ma allarga le braccia. È una posa molto nota, ma non sempre si osserva cosa in realtà Cristo stia facendo. Con la mano sinistra – un bellissimo scorcio – indica uno dei pani che sono sul tavolo e con la destra sta per prendere un bicchiere di vetro trasparente in cui si vede del vino. Leonardo ha soppresso l’elemento più ovviamente drammatico e psicologicamente di successo: le reazioni all’annuncio del tradimento. Anche qui si vedono queste reazioni, ma Cristo è già andato oltre: sta indicando il pane e prendendo il bicchiere di vino. Leonardo ci porta subito oltre il tradimento e va verso l’istituzione dell’eucaristia. Per fare questo si inventa un “tipo” di Cristo che non si era mai visto nell’ultima Cena, anche se ormai ci sembra classico. Anzitutto va notato che, mentre tutti gli apostoli gesticolano e si sfogano, Cristo sta immobile e compie i suoi gesti con una maestosa ieraticità, evocata anche nella composizione a piramide, che è il più stabile dei solidi. Leonardo racconta una azione non esteriore, bensì interiore. La testa è leggermente inclinata e sul volto leggiamo tutta la tristezza del momento: Cristo sapeva del tradimento, ma conosceva anche il suo imminente destino di morte, e lo accettava.

Da dove Leonardo ha preso questa tipologia di Cristo?

Io individuo tre fonti. La prima, tipica della cristianità fin dalle sue origini, è il Cristo pantocratore che allarga le braccia, come si trova nel battistero di Firenze che Leonardo ha senz’altro visto. Là Cristo porta la tunica rossa e il mantello blu, esattamente come nel cenacolo milanese. La seconda fonte figurale è anch’essa di origine paleocristiana: il Cristo legislatore che porge con le braccia stese il rotolo della legge a Pietro e Paolo. Ci sono esempi fiorentini che Leonardo poteva aver visto. Ma il vero punto è la terza fonte. È l’immagine religiosa più comune del periodo, dopo quella della Madonna col Bambino; cioè quella denominata imago pietatis o vir dolorum. Raffigura Cristo a mezza figura deposto dalla croce. Ma è vivo e, ancora sofferente, mostra le ferite con le braccia aperte nella stessa posa del Cristo di Leonardo. Chi lo vedeva, se era minimamente colto come i domenicani di Santa Maria delle Grazie, riconosceva la regalità del pantocratore e l’immagine del legislatore che dona la nuova legge dell’amore. Ma la cosa che alla fine fa scattare la comprensione di questa figura è l’allusione alla figura di Cristo sofferente che allargando le braccia mostra le sue piaghe. Questo è l’elemento determinante, ma oggi è dimenticato. Come si dimentica che la cena di Leonardo si trova di fronte ad un altro dipinto: la crocifissione di Donato Montorfano che si trova sull’altra parete del refettorio. L’opera leonardesca non è un capolavoro isolato, è parte di un programma, che unisce la cena del giovedì e la crocifissione del giorno seguente. Per questo Leonardo ha scelto un gesto che di Cristo evocasse la regalità, la nuova legge e, soprattutto, l’accettazione della sofferenza redentrice. Se Cristo dell’ultima Cena alzasse lo sguardo, vedrebbe se stesso in croce. I frati, entrando in refettorio dalla messa dove avevano mangiato il pane e il vino trasformati nel corpo e nel sangue, si trovano tra la cena e la croce, tra Cristo che si impegna a dare il suo corpo e il suo sangue per la salvezza di tutti e Cristo che realmente lo fa. Per uomini consacrati era un modo per richiamarsi che il voto che avevano espresso con le parole doveva realizzarsi giorno per giorno nella vita.