In due articoli, apparsi su La Repubblica pochi giorni dopo la morte di Eluana Englaro, M. Niola e R. Esposito, indicano “la posta in gioco” nella “battaglia biopolitica”: una volta che il corpo, nella fase terminale, è ridotto a “nuda vita”, “pura cosa”, avendo perso il suo “proprietario naturale”, “il soggetto che lo abita”, chi ne diventa il propietario, “Dio, lo Stato, chi lo ha generato, chi lo ha in custodia”? Una questione di “possesso” e di “potere”, dunque: a chi appartiene ultimamente l’uomo, la vita dell’uomo, chi ha potere di decidere il suo destino? Sullo sfondo si staglia una posizione oggi molto diffusa in campo filosofico e bioetico: non basta essere un essere umano, nato da due esseri umani, per essere una persona, non tutti gli esseri umani, in qualunque condizione o stadio della vita, sono persone. È su questa distinzione, e sulla possibilità di ridurre la “nuda vita” a “pura cosa”, che si fonda la pretesa del potere che, come ricordava don Giussani in un intervento del 1983 (La crisi dell’esperienza cristiana e il trionfo del potere), sempre si costruisce sulle necessità e sui limiti, sul “corpo”, ma è potere su tutto l’uomo, secondo una logica che il progresso tecnologico ha reso più totalizzante.
Il problema che allora si pone, tornando al suggerimento iniziale, è quello del limite a e di questo potere del e nel soggetto legittimo del suo esercizio, perché come ricordava ancora Giussani nell’intervento dell’83, citando Romano Guardini: «Essere in possesso di un potere, se non è definito da una responsabilità morale e non controllato da un profondo rispetto della persona significa distruzione dell’umano in senso assoluto» (R.Guardini, La fine dell’epoca moderna. Il potere, 1984, 177)
Lo stesso Guardini nel 1947, su invito di alcuni medici, tenne una conferenza sul “Diritto alla vita prima della nascita” in riferimento alla discussione allora in corso sull’art. 218 del Codice Penale tedesco relativo all’interruzione di gravidanza e alla sua non punibilità nei casi contemplati da una specifica Indikation di carattere medico, criminologico o sociale. Le esperienze recentissime del nazismo segnavano profondamente la riflessione di Guardini, che fa riferimento in particolare alle misure di eutanasia adottate dal regime negli anni 1939-1941, conosciute come “Operazione T4”, che causarono dalle settantamila e alle novantamila vittime, tra bambini portatori di handicap, persone affette da demenza senile, epilettici, detenuti provenienti da manicomi criminali. Per cui, a un certo punto, pur riconoscendo il peso che la considerazione delle circostanze, delle miserie e necessità materiali e morali, non può non esercitare sulla definizione del problema, Guardini afferma: «Attraverso l’intrico di tutte le considerazioni [giuridiche, scientifiche, economiche e sociali] deve risultare chiaro che alla fin fine un’unica questione è importante, quella che oltrepassando il problema particolare […] conduce al punto fondamentale: l’uomo appartiene a se stesso, alla famiglia e allo Stato, oppure è sottoposto all’elevatezza [Hoheit] di un’istanza assoluta, la cui norma regoli sia i desideri personali sia le pretese sociali?
Se è vero il primo caso, allora l’uomo è abbandonato a se stesso, ai suoi desideri, ai suoi bisogni e alle sue concezioni; come pure alla situazione sociale e alla sua più potente espressione, ossia allo Stato. Singolo e Stato troveranno sempre delle ragioni […] per dare un carattere di giustizia esclusiva a ciò che vogliono. Lo abbiamo sperimentato.
Se è vero il secondo caso, allora ai desideri e alle tribolazioni del singolo, così come alla forza di suggestione della situazione sociale e alla violenza dello Stato, sta di fronte un limite morale assoluto. E questo limite non solo inibisce, ma anche salva; salva l’uomo e lo Stato – ciò che è proprio dell’uomo e ciò che è proprio dello Stato – dalla confusione che nasce da essi medesimi. Ogni violazione della persona, specialmente quando s’effettua sotto l’egida della legge, prepara lo Stato totalitario. Rifiutare questo e approvare quella non denota chiarezza di pensiero né coscienza morale vigile.» (R. Guardini, Il diritto alla vita prima della nascita, 2005, 36-38).
Molto probabilmente, il problema oggi sta, in gran parte, proprio qui: in questa mancanza di chiarezza del pensiero, in questo sopore morale per cui chiunque rifiuta lo stato totalitario, molti, però, in vario modo, tendono ad approvare e giustificare la violazione della persona, sotto l’egida della legge, anche affermando che non tutti gli esseri umani sono persone, in qualunque condizione o stadio della vita, «non lo sono, ad esempio, se viene loro negata fin dall’inizio l’ammissione nella comunità di riconoscimento, mediante la quale – e solo grazie alla quale – gli uomini diventano persone. Non lo sono neppure se ad essi in quanto individui mancano le caratteristiche in virtù delle quali definiamo in generale gli uomini come persone, cioè se essi non dispongono ancora , o non più, temporaneamente o per tutta la vita, di queste caratteristiche. Ad esempio, bambini piccoli e vecchi con gravi deficit mentali non sono persone, e secondo Derek Parfit, il pensatore di gran lunga più autorevole di questo orientamento, non lo sono neanche coloro che si trovano in coma irreversibile e quanti sono temporaneamente privi di coscienza». (R. Spaemann Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, 2007, 4). È questo quello che Spaemann definisce un profondo rivolgimento teorico, per cui «il concetto di persona gioca improvvisamente un ruolo chiave nella distruzione dell’idea che gli uomini, proprio in quanto uomini, rispetto ai loro simili, avrebbero qualcosa come dei diritti» (Ibid.).
Tutti parlano di “dignità della persona” come fondamento dei diritti, ma in che cosa consista propriamente questa dignità, che secondo il precetto kantiano costituisce appunto l’istanza morale e il limite assoluto, che impedisce di trattare un essere umano come un mezzo, una cosa, è oggetto delle più varie interpretazioni, o, più precisamente, tale concetto si presta facilmente al gioco di chi vuole manovrare a piacimento il limite morale assoluto, di volta in volta lasciando fuori «dal recinto concettuale e simbolico della persona» – sono espressioni di Esposito – tutto quello o tutti quelli che non rientrano nella definizione che qualcuno – chi? gli intellettuali, i giuristi, gli economisti, il comitato etico, il popolo sovrano, Derek Parfit, Peter Singer, il magistrato competente, il Tar?- ha deciso a priori di escludere. Così, in nome delle “dignità della persona”, si uccidono degli esseri umani, in nome di una dignità della persona intesa, per altro, secondo criteri piuttosto soggettivi e mutevoli: la “qualità della vita”, la “libertà di scelta”, la “pietà per i sofferenti”, il “diritto di autodeterminazione del soggetto”, ultimamente persino il “diritto del padre a decidere della vita dei figli” – perché purtroppo si è detto anche questo –, secondo una interpretazione confusamente sentimentale di una logica arcaica – il diritto della stirpe e del sangue incarnato dalla feroce patria potestas pagana – contro la quale la Chiesa ha lottato fin dalle sue origini e che sembrava definitivamente tramontata nella nostra civiltà, almeno giuridica. Questo forse è il segnale più preoccupante dei limiti del formalismo etico, anche nella sua espressione più alta, quella kantiana, e, quindi, di una impostazione puramente procedurale della difesa dei diritti umani.
Perché infine il discorso, anche quello della dignità della persona e di una sua adeguata fondazione, ci riconduce sempre allo stesso punto: a chi appartiene l’uomo, a chi appartengo io? Questa mi sembra la formulazione più corretta, non semplicemente retorica, della domanda di Esposito. La ragione e l’evidenza sono, e non possono che essere, a questo livello, inesorabili: io appartengo a ciò che mi fa essere. Chi mi fa essere? Se la mia origine è puramente biologica, «ciò che han fatto papà e mamma», come ricorda ancora Giussani, o sociale, «è chiaro che [io sono] come un sasso dentro tutto il flusso dei torrenti [del potere]»; allora veramente lo “Stato”, – “l’espressione più forte” dell’individuo e della società, nelle sue versioni decisamente totalitarie o più soft, liberal democratiche – è “origine e fonte di tutti i diritti e gode di un diritto senza confini” – letteralmente assoluto, indefinito e irresponsabile -, secondo la tesi condannata dalla 39º proposizione del Sillabo. Ma, chi, veramente, mi fa essere? «Solo se nell’uomo è ipotizzabile o viene affermato un quid che non deriva dal flusso biologico [o sociale] antecedente, e perciò solo se c’è nell’uomo qualcosa che, siccome non c’era, è fatto, resta – unica ipotesi – la grande ipotesi della trascendenza: nell’uomo, in qualunque punto sia, esiste qualcosa che sia identicamente rapporto con ciò da cui tutto dipende e, come tale, proprio perché tutto ne dipende, è il significato totale e quindi indecifrabile […] incommensurabile [non misurabile, neppure rispetto ai parametri di qualità della vita o della nostra cosiddetta pietà, dei nostri desideri o delle nostre tribolazioni], incommensurabile, cioè mistero. Se il significato di tutto è mistero, e nell’uomo ciò che gli è specifico è il rapporto con il mistero [prima e più profondamente della “parte razionale e volontaria”, del “riconoscimento”, della “vita di relazione”], questa è una fondazione di dignità che tutta la baraonda che si può stabilire nel regno umano non può toccare […]. Perciò il fondamento della dignità di una persona non può essere che questa ipotesi, e questo è il più grande paradosso: solo la dipendenza dal mistero come costitutiva del valore dell’io libera l’io.» (Giussani, La crisi dell’esperienza cristiana, 20-21).
Questo, si potrebbe dire, riprendendo Guardini, è il contenuto, la sostanza, dell’Istanza assoluta che protegge il singolo da tutte le pretese assolute del potere.