“L’Osservatore romano”, nel suo editoriale dell’8 maggio, scriveva: «Il percorso in Terra Santa di Benedetto XVI è un viaggio alle radici della fede per tornare sui cammini di Dio. […] è dunque, innanzi tutto, un pellegrinaggio. […] fu Paolo VI nel 1964, con un sorprendente ed essenziale itinerario, a iniziare i suoi viaggi sui passi di Cristo[…]. Ora, Benedetto XVI torna in Giordania, Israele e Territori palestinesi per celebrare la fede e per confermare l’amicizia della Chiesa di Roma nei confronti di tutti: dai credenti musulmani – con i quali è possibile un cammino comune – al popolo ebraico, fino ai cristiani di ogni confessione. In un viaggio il cui intento politico è soltanto quello di contribuire a una pace che deve tradursi in giustizia e sicurezza per tutti i popoli di una terra davvero santa».
Con gioia, constatiamo oggi il grande successo del pellegrinaggio di papa Ratzinger; così è stato per quello di papa Montini, in misura ancora più dirompente data l’assoluta novità dell’iniziativa, che segnò un ulteriore “primato” anche dal punto di vista ecumenico.
Se la situazione politica odierna è complessa, non lo era da meno nel gennaio 1964, con lo Stato di Israele non riconosciuto dalla Santa Sede (le disposizioni ONU circa l’internazionalizzazione di Gerusalemme non erano state eseguite) e la “città antica” divisa con la Giordania. In Palestina, il numero dei cristiani calava vertiginosamente, raggiungendo circa il 2% (oggi siamo intorno all’1,5%).
Il viaggio è stato annunciato a sorpresa da Paolo VI il 4 dicembre 1963, nel discorso di chiusura del secondo periodo del Concilio ecumenico Vaticano II: un pellegrinaggio con scopi penitenziali ed ecumenici, e per impetrare il dono della pace, dice il pontefice nella basilica di San Pietro, davanti a più di 2000 padri, ribadendo (come il papa attuale) che non vi sono intenti politici. È ormai noto che fin da settembre Paolo VI medita questa visita e il suo segretario privato don Pasquale Macchi e monsignor Jacques Martin, della Segreteria di Stato, hanno avuto il compito di organizzarla, nel più assoluto segreto. A fine luglio 1963 il papa ha ricevuto un rapporto sulla situazione socio-religiosa della zona.
Dal 4 al 6 gennaio 1964 si svolge dunque il pellegrinaggio in Terrasanta. Nelle piantine del tempo troviamo, ad est, la zona sotto controllo ONU e ad ovest la “terra di nessuno”; a Genina viene allestito un passaggio di frontiera verso Israele apposta per l’illustre ospite, salutato a Megiddo dalle autorità israeliane. Re Hussein sorvola la città in elicottero per controllare dall’alto gli spostamenti del pontefice, molto veloci data la brevità del viaggio, ma che toccano tutti i luoghi della vita di Cristo.
Le cronache ricordano la famosa camminata per la “via dolorosa”, durante la quale il protocollo è sovvertito dallo straordinario afflusso di folla che preme il papa da tutte le parti e quasi gli impedisce il passaggio nelle viuzze che conducono alla basilica. A proposito dell’ultimo incontro con gli abitanti di Gerusalemme, è da segnalare la risolutezza di Paolo VI nel momento in cui decide – davanti alla enorme folla di ebrei convenuti per salutarlo – di cambiare il testo del suo discorso, aggiungendovi una difesa di Pio XII dalle accuse di antisemitismo che i giornali ripetono in quei giorni a proposito del dramma teatrale di Rolf Hochhut Il Vicario. Papa Montini, come già aveva fatto in precedenza, ribadisce che il suo predecessore durante la guerra si è adoperato per la difesa e salvezza di tutti, senza distinzioni, anche se si sono voluti gettare sospetti e accuse contro la sua memoria.
Dicevamo di un “primato” anche dal punto di vista dell’ecumenismo. A seguito dell’annuncio del viaggio, il patriarca di Costantinopoli Atenagora propone un incontro, dapprima addirittura tra tutti i capi delle Chiese d’Oriente e d’Occidente e poi – verificata l’impossibilità di attuazione di questa idea – tra lui e il pontefice; desiderio favorito con gioia da Paolo VI. Per il pontefice il viaggio si concentra su Cristo; vuole essere un ritorno alle fonti e un messaggio per tutta la Chiesa e soprattutto per il Concilio, perché le riforme che esso avvierà dovranno andare nel senso di centrare l’attenzione della Chiesa su Cristo. Dunque, ci sarà ecumenismo solo se si ritrova assieme il Cristo: gli incontri ecumenici nei pochissimi giorni della permanenza in Terrasanta sono ben otto, da quello con il patriarca ortodosso di Gerusalemme Benediktos a quello con l’armeno Yegheshe Derderian, fino al culmine dell’abbraccio con Atenagora. Il papa, durante l’incontro, rompendo il protocollo, chiede ad Atenagora di dare la benedizione comune; il dono che gli porge è segno di speranza: un calice, con l’auspicio di giungere alla concelebrazione; infine si ha la recitazione comune, in greco e in latino, del Padre Nostro.
Al rientro a Roma, un raduno di folla eccezionale, per quei tempi, lungo la strada e in piazza San Pietro, stupisce e rallegra il papa, che legge in questa straordinaria accoglienza una eccezionale adesione popolare al ministero petrino: «Io non aspettavo di vedere Roma in una esaltazione spirituale così grande […]. Roma ha manifestato, penso, come non mai una adesione al Papa […] lo diranno i documenti, lo diranno i testimoni, quale ricevimento sia stato fatto stasera al Papa dal popolo di Roma; una cosa che dobbiamo registrare come grande e come significativa».
«Roma era come trasfigurata», scrive l’«Osservatore romano».
All’udienza generale del 15 gennaio Paolo VI, commentando il fatto che il vicario di Cristo era assente da oltre diciannove secoli dalla terra di Gesù, dirà che «quel viaggio memorabile […] pare il ripetersi della favola di colui che si addormenta in un dato luogo e in dato momento del racconto, e si desta cento anni dopo, e crede trovare il mondo che lo circonda come lo aveva lasciato quando il sonno lo prese, e vede invece che tutto è cambiato, e nessuno egli conosce e nessuno conosce lui che si risveglia. Ebbene, […] dobbiamo notare una cosa stranissima, una cosa che costituisce una delle meraviglie di questo Nostro viaggio singolarissimo; e la meraviglia è questa: d’esserci svegliati in un mondo incomprensibile, e, invece d’essere forestieri e sconosciuti – pensate, dopo tanto tempo trascorso e dopo tanti avvenimenti radicalmente trasformatori -, Noi eravamo colà perfettamente conosciuti; e non solo come il Papa di Roma, ma proprio come Successori di Simone, figlio di Giona, […]. Si direbbe che Pietro fosse partito – di là poco prima, e che fosse aspettato al suo paese per fargli festa a causa della sua acquisita celebrità, e ancor più a causa delle tante ragioni che sempre lo legano a quei luoghi benedetti; e, per colmo di stupore, l’accoglienza a lui fatta, quasi improvvisata, non era promossa soltanto dai fratelli di fede di Pietro, ma anche dai fratelli da secoli da lui separati; e per di più, da musulmani, ed ebrei, tutti gentilissimi e desiderosi di acclamare a quel suo inatteso, ma gradito e naturalissimo ritorno». E il papa concluderà definendo l’esperienza, ancora una volta, in rapporto alla fede e a Cristo: «Dunque: Noi andiamo là, nei posti del Vangelo; e subito il Vangelo Ci si presenta spiritualmente d’intorno, come se Gesù ancora fosse lì, davanti a Noi […]. È una specie di confronto: tra Lui, il Maestro divino, e Noi; un bisogno di stabilire, di verificare il rapporto che esiste fra Gesù e il Nostro essere […] se è vero che tanto rimane in noi e nella Chiesa ed in ogni anima, anche cristiana, da correggere e da perfezionare per accostarci a quel tipo perfetto di umanità santificata dalla Grazia, che è Gesù Cristo, ne abbiamo almeno il desiderio, il proposito, la preghiera. Non è stato, a questo riguardo, il Nostro viaggio un umile, ma coraggioso atto di buona volontà?».