Verso la fine di maggio del 1945 un’auto si fermò ai cancelli del seminario di Praga, attirando la curiosità degli studenti che passeggiavano nel parco. Ne scese un ometto che indossava l’uniforme delle SS – quelle che gli americani distribuivano ai prigionieri del lager nazista di Dachau appena liberati, – ma con il tricolore cecoslovacco appuntato sul petto. L’ometto era Josef Beran (1888-1969), già rettore del seminario e, di lì a poco, nuovo arcivescovo di Praga e protagonista della resistenza della Chiesa contro la persecuzione antireligiosa.
Dopo il colpo di Stato del febbraio ’48, il governo comunista guidato da Gottwald fece di tutto per creare divisioni all’interno della Chiesa cecoslovacca, per separarla dal papa e dalla società: «Dobbiamo isolare la gerarchia ecclesiastica – disse Gottwald – e preparare così il terreno per poterle infliggere il colpo mortale. La nostra tattica non prevede di arrestare né i vescovi né i singoli religiosi: faremo saltare le loro giunture […]. Servirà una campagna condotta tramite i media […]. Bisogna usare la calma, essere prudenti, evitare diffamazioni».
Beran non era un tipo malleabile, e se inizialmente parve ricercare un compromesso col regime in modo da contribuire alla ricostruzione pacifica del Paese, presto cominciò ad alzare ripetutamente la voce in difesa della libertà religiosa.
L’escalation antireligiosa culminò nel giugno 1949, quando il regime fondò un’Azione Cattolica “statale” formata da preti e laici “progressisti”, debitamente scomunicata dal Vaticano e condannata dai vescovi locali, i quali risposero con la lettera pastorale “Nell’ora della grande prova”, da leggersi in tutte le chiese in occasione del Corpus Domini nonostante il divieto statale. Nella lettera si difendevano l’autorità del papa, il diritto dei genitori all’educazione dei figli, la libertà d’azione della Chiesa nell’ambito educativo e culturale, e l’importanza del sostegno finanziario statale alle opere pie che svolgevano attività sociale e caritativa. Giunse il fatidico 19 giugno. A Praga la polizia bloccò l’accesso della cattedrale di San Vito, dove avrebbe celebrato Beran, e la riempì di provocatori in borghese che disturbarono la messa cercando persino di intonare l’Internazionale. Beran fu scortato nel palazzo arcivescovile e cominciò per lui un internamento coatto, lì e in altre località di provincia, durato fino al 1965. Cancellato dalla storia, separato dal suo popolo, assistito da poche suore e sorvegliato dalla polizia, Beran rimase fedele al suo motto episcopale, “Eucaristia e lavoro”: adorazione quotidiana, studio dei santi patroni cechi e taglio della legna per l’inverno. Un poliziotto si convertì osservando come viveva le sue giornate.
Nel 1962 fu “pensionato” ma rimase una spina nel fianco per il regime, che in quegli anni preferiva assecondare la linea morbida dell’Ostpolitik vaticana, finché nel febbraio ’65 al Comitato centrale del Partito, a Praga, qualcuno disse: «Che se lo prendano pure, qui da noi è pericoloso». Due settimane dopo iniziò il suo esilio a Roma, frutto di compromesso, e da allora operò incessantemente per il bene della sua patria, condannando senza mezzi termini la mancanza di libertà religiosa nel blocco comunista: se la persecuzione nazista era stata più brutale – osservò – quella comunista era solo più raffinata, e perciò più pericolosa. Al Concilio Vaticano II intervenne sulla libertà religiosa, auspicando la riabilitazione di Jan Hus. Creato cardinale da Paolo VI, morì il 17 maggio 1969.
Da un’informativa della polizia politica, desecretata ed esposta nella mostra allestita in questi giorni presso la Facoltà teologica di Praga, emergono le preoccupazioni del regime che non volle ospitare la salma di Beran in patria perché temeva che questo gesto di pietà si potesse trasformare in una manifestazione antigovernativa: la ferita del sacrificio di Palach, consumatosi pochi mesi prima, era ancora aperta. Paolo VI dispose allora che Beran riposasse – privilegio eccezionale – nelle grotte vaticane, fra i papi.
Nel 1998 è stato aperto il processo di beatificazione.
Nell’introduzione alla biografia di Beran uscita recentemente in Repubblica ceca, il suo ex-segretario a Roma, monsignor Skarvada, scrive: «Gli tolsero la libertà e la patria, ma il Tabernacolo rimase per lui fonte di conforto e di gioia… Sapeva che la preghiera, che nessuno avrebbe potuto togliergli, è più forte della malvagità della polizia politica e del regime comunista». Il cardinal Vlk, attuale arcivescovo di Praga, l’ha definito «simbolo della resistenza contro tutti i totalitarismi a cui non bisogna cedere mercanteggiando la verità o scendendo a compromessi».
Il prossimo novembre, mese in cui culminerà il ventesimo anniversario della “rivoluzione di velluto”, verrà inaugurato a Praga un monumento a Beran, e presso il monastero di Strahov è prevista una grande mostra sulla Chiesa perseguitata.