Elio Gioanola, docente emerito di letteratura italiana presso l’università di Genova, nonché noto saggista e critico letterario, ha da poco presentato alle stampe l’ultima sua fatica: una biografia sullo scrittore Ettore Schmitz, più conosciuto come Italo Svevo. Gli abbiamo chiesto quale sia l’attualità e la portata dell’opera di questo artista, da lui ritratto in un dittico che ne affianca la figura a quella di Luigi Pirandello
Professor Gioanola, “Svevo’s Story”, la biografia dello scrittore triestino uscita da poco segue, a distanza di due anni “Pirandello’s Story”. Qual è l’idea dalla quale nascono questi due libri?
I volumi nascono entrambi dalla confluenza di due convergenti vocazioni, ovvero quella critica e quella narrativa. In poche parole mi piace pensare di aver creato un nuovo genere letterario che combina le risorse di questi due mondi per offrire ai lettori un tipo di approccio nei confronti di questi due artisti che sia meno paludato, accademico, ingessato e più piacevole alla lettura.
Il tutto nel tentativo di non sacrificare mai la qualità e la profondità dell’analisi.
Come mai la scelta di queste due biografie è ricaduta proprio su questi scrittori?
In primo luogo per un gusto personale. Svevo e Pirandello sono due antichi “amori” ai quali ho dedicato diversi volumi e sui quali ho impostato parecchi corsi universitari. A ciò si aggiunge il fatto che si tratta probabilmente dei due massimi scrittori italiani del primo novecento che hanno cambiato sensibilmente, mediante la propria opera, lo statuto della narrativa italiana.
Concentrandoci su Italo Svevo: non avverte il rischio che nel sentire comune sia spesso relegato al ruolo di “scrittore della psicanalisi”?
Il pericolo in effetti c’è, perché gli stereotipi sono sempre in agguato. Anch’io passo per un critico psicanalitico quando in realtà ho realizzato numerosi e ben differenti tipi di critica e analisi lungo l’arco della mia carriera accademica. Le etichette, si sa, sono comode.
Il buffo è che Svevo non amava per niente la psicanalisi sebbene, parlando a proposito di Joyce, ne avesse affermato l’indispensabilità per definire i contorni dello scrittore e dell’uomo a lui contemporaneo.
Resta il fatto innegabile che egli se ne servì
In effetti lo strumento psicanalitico costituiva il campo da gioco per uno scrittore che, pur conflittualmente, ha avuto a che fare con la psicanalisi in primo luogo a livello indirettamente personale, perché suo cognato fu un paziente di Freud, e in secondo luogo perché, conoscendo benissimo il tedesco ed essendo egli un suddito dell’impero austroungarico, poteva avere un contatto diretto con la cultura viennese. Confinare in quest’ambito l’intera opera di Italo Svevo però non è giusto. Io direi che addirittura Svevo anticipò numerose tematiche scientifiche che seguirono nel dibattito psicanalitico degli anni a lui successivi. È a lui che si deve l’invenzione di protagonisti che obbediscono più ai dettati dell’inconscio che a quelli della coscienza. Anche se il titolo del suo romanzo principale è proprio “La coscienza di Zeno” il protagonista è un personaggio che obbedisce maggiormente agli impulsi segreti profondi che non alla propria volontà razionale.
Non c’è in tutto ciò anche una vena di scanzonata ironia nei confronti della nuova scienza?
Certamente, basti pensare a quanto succede nella vita di Zeno: vuole una donna e finisce per essere sposato da un’altra, punta verso un obiettivo e ne colpisce quasi sempre un altro non previsto. Ma l’ironia è incentrata in questo incrocio di istinto e destino, volto a risolvergli la vita in maniera molto più indolore di quanto non sarebbe successo a fronte dell’esaudirsi della sua volontà. Sbagliando un obiettivo Zeno lo centra. Ad esempio: la donna che ha dovuto sposare si dimostra molto migliore rispetto a quella che desiderava. Ma il libro di per sé è ironico anche nell’incipit. Comincia infatti col risultare un’opera pubblicata dallo psicanalista presso il quale Zeno è in cura. Un medico che è costantemente preso in giro da un paziente che non crede minimamente nell’efficacia delle terapie. Zeno si inventa i sogni raccontati in analisi e conduce l’intera cura con superficialità, incoerenza e mancanza di serietà. Ciononostante scopre a mano a mano risvolti esistenziali profondissimi anche dalle proprie fantasie ed invenzioni.
Anche questo atteggiamento denota il riverbero concettuale di uno scrittore, Italo Svevo, cresciuto in un ambito culturale di cui non poteva fare a meno di parlare ma al quale non riusciva interamente ad aderire.
Eppure, nonostante l’ironia che percorre le pagine del romanzo di Zeno, si assiste a un finale apocalittico e catastrofico:
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
Molto semplicisticamente tutto questo è stato interpretato come preannuncio della bomba atomica. In realtà Zeno è colui che essendo costituito come non adatto alla vita finisce poi per sopravvivere a tutti. Sopravvive al padre, all’amico Copler, al suocero, al cognato e all’amministratore. Colui che era considerato come il “debole” finisce per ritrovarsi più forte di tutti gli altri. Questo perché negli altri si rappresenta la certezza granitica, e quindi destinata a perire, dell’uomo del passato. Zeno rappresenta invece l’ideal-tipo dell’uomo nuovo, novecentesco. A ben guardare è lui stesso a dipingersi come l’ultimo uomo, colui che premerà il bottone di avviamento degli ordigni che finiranno per sterminare l’umanità intera.
Oltre a questa visione dell’uomo nuovo e dell’apocalisse del vecchio mondo, alla critica e al confronto con la scienza psicanalitica, esiste nella letteratura di Italo Svevo, un richiamo al trascendente?
Probabilmente Svevo rappresenta il prosatore più laico della nostra letteratura. Questo non significa che avesse un approccio superficiale nei confronti del significato dell’esistenza sebbene, rispetto a Pirandello, emerga assai meno nella sua opera una domanda diretta sul senso di tutte le cose.
Si convertì al cattolicesimo per sposare Livia Veneziani, la cugina, che era molto religiosa e che sognava di convertire suo marito. Il rapporto religioso fra i due coniugi emerge in modo commovente nel bellissimo scritto che si intitola “La Morte”. Ciononostante lo scrittore dichiarò di non volere ai propri funerali la presenza di preti o di rabbini.
Sebbene laica, la sua scrittura rimane comunque ironica.
Svevo non è mai del tutto disperato, anzi direi che non è uno scrittore tragico proprio perché non pensava di aver risolto o che fosse risolvibile, e quindi conchiuso, il mistero della realtà.