L’ideale di una legge che non sia orientata o ispirata da niente è sempre stato il grande sogno del pensiero moderno. Un’universalità puramente formale senza dipendenza da alcun contenuto o da alcuna esperienza di identità storica, culturale o religiosa.

Secondo questa utopia è la legge a fondare la libertà, è il diritto a creare la persona e non viceversa. Una sorta di potere, quello della legge, che non esprime né dà più voce all’esperienza umana, alle identità, al senso comune, ma ha la pretesa di forgiare l’umanità e di costruirla essa stessa.



Storicamente l’ispirazione religiosa e teologica è stata la componente essenziale per la nascita del cosiddetto diritto naturale, ma questo diritto è poi arrivato a mettere tra parentesi se non addirittura a rinnegare la sua ispirazione ribaltando il rapporto tra l’immagine dell’uomo, posta come base di partenza ed ereditata dall’esperienza cristiana, e la norma chiamata a tutelarla e a promuoverla. In altri termini: per il diritto naturale non c’è più un’esperienza concreta dell’umano da cui partire, ma solo un’immagine generale, da costruire appunto attraverso la legge.



Il punto problematico allora non è se la religione possa o non possa interferire con la legislazione o se il legislatore debba o non debba pronunciarsi sulle “cose di religione”; la vera questione è piuttosto quale sia la ratio della legge, cioè, ad un tempo, il suo orientamento, il suo fondamento e la sua misura.

Quella che sembra imporsi sempre più nell’attuale dibattito è una sorta di “ragione grigia”, come una matrice neutra di tutti i diritti il cui unico criterio è la separazione da ogni appartenenza.

Oggi abbiamo innanzi a noi due alternative estreme rispetto al problema: o la legge, e più in generale la norma giuridica, è intesa come la via per realizzare la fede religiosa, ed è il caso del fondamentalismo, oppure ci si trova di fronte alla pretesa di una totale “privatizzazione” in senso giuridico dell’esperienza religiosa stessa, la sua esclusione dagli orientamenti della giurisprudenza.



Ma in entrambi i casi la legge viene caricata di un potere che non è suo proprio, quello cioè di creare l’identità o il diritto che essa regolamenta e tutela, e di sancire l’esclusione di ciò che non è normato.

Tuttavia, come ha scritto ultimamente Jürgen Habermas a proposito della società “post-secolare” (cfr. Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006), il grande progetto illuminista per cui il potere universale della ragione avrebbe semplicemente reso superflue le tradizioni religiose, relegandole ad un residuo sub-culturale del passato, ha trovato più di una smentita, e non solo o non tanto per il persistere di residui fondamentalisti, ma, molto di più, per la presenza creativa di cittadini religiosi che possono contribuire come una risorsa di senso alla vita sociale e pubblica. 

Il che non è né un uso politico della religione né un uso religioso della politica, ma, come la chiama sempre Habermas, una sfida “cognitiva”, un’auto-comprensione chiesta ai “cittadini laici” perché pongano nuovamente il problema di ciò che legittima la loro pretesa di universalità; ma anche una sfida rivolta ai “cittadini religiosi” perché comprendano la rilevanza pubblica (e io aggiungerei: pienamente “laica”) delle loro ragioni nate dalla fede.

Infatti il grande problema di fondo resta sempre quello: può la generalità o l’universalità della legge essere pagata al prezzo di neutralizzare le esperienze storiche particolari; e soprattutto, all’inverso, può un’esperienza storica portare con sé un valore universale?

Solo emergendo nella concretezza di tradizioni e identità storiche l’universale ha dato effettivamente prova di sé, mentre staccato da esse si è ridotto ad essere una generalità astratta. Questa è la sfida che va accettata e anzi riaperta ancora oggi: che l’universale possa essere riscoperto in tutta la sua concretezza, qualcosa che è di tutti non perché non è di nessuno, ma proprio perché è di qualcuno. A patto, s’intende, che questo “qualcuno” riesca a mostrare che si tratta di un’esperienza per tutti, cioè effettivamente secondo ragione.