Andrei Makine vive in Francia, ma è nato in Russia nel 1957. La terra d’origine è spesso presente nei suoi romanzi, in particolare La musica di una vita (2003) e La donna che aspettava (2006). Anche l’ultima produzione, L’amore umano, tradotto nel 2008 per Einaudi, sebbene ambientata in varie parti del mondo, ha il suo fulcro nelle lande sterminate della terra russa.



Elias Almeida, originario dell’Angola, dopo anni di guerriglia in Africa e a Cuba, conclude il suo apprendistato politico e militare a Mosca. Qui si rende conto di quanto sia lontana la novità promessa da Lenin, ma soprattutto incontra Anna, che gli schiude la possibilità di vedere la luce di una vita diversa. Sono solo pochi giorni. Elias è convinto che la rivoluzione porterà frutto nel suo paese e riprende a combattere in Africa. Ma, diventato solo una rotella di un enorme ingranaggio di violenza, non potrà mai dimenticare l’amore vissuto nel grande gelo della Siberia.



Si intravede nella storia di Elias un esempio della speranza delusa di intere generazioni: forse una allusione ai convincimenti dell’autore? La bellezza del protagonista non sta nell’essere uno dei tanti eroi sconfitti, ma nell’aver conservato il ricordo di un luogo tutto suo, di purezza e di pace.

In un episodio centrale del romanzo, la giovane studiosa conosciuta e amata da Elias a Mosca, lo invita a conoscere sua madre in uno sperduto villaggio della Siberia. L’interminabile viaggio in treno gli permette di vedere un mosaico di etnie e la sua pelle nera non impedisce incontri pieni di naturalezza; lì avverte la profondità del suo legame con Anna, la cui presenza lo rimanda all’unica esperienza d’amore da lui vissuta, quella con sua madre in Angola; infine si accorge di una vita segreta e tenace che perdura con i suoi valori in luoghi tagliati fuori dai grandiosi progetti del comunismo. Scopre insomma, secondo la felice espressione di Makine, l’intimità del vero.



I due giovani incontrano una coppia di vecchi contadini quasi seppelliti in mezzo alla neve: lui è reduce dal lager, lei scovata per caso nel buco dove da ragazza veniva violentata dai minatori, l’ha aspettato per molti anni.

Un uomo anziano, vestito con una semplice giacca imbottita e una donna con gli occhi a mandorla. Con ogni probabilità una jakuta.

– Scavate una tana? gridò loro Anna.

– Si, una tana per un fiore – rispose l’uomo. – Questa volta non me lo distruggeranno…

Si mise a conficcare obliquamente lunghi bastoncini nella neve. Quando ebbe compreso il principio della strana struttura, Elias li aiutò a terminarla. L’uomo raccontò che da anni aspettava la fioritura di una “fiamma d’oro”, una sorta di orchidea selvatica che si schiude di notte e muore all’alba. Aveva individuato il punto in cui cresceva, ma ogni volta perdeva la notte della fioritura. Spesso trovava la pianta calpestata o sradicata dagli animali alla fine dell’inverso. Allora aveva deciso di costruire un riparo prima che la neve si sciogliesse.

Si fermarono un poco nell’isba dove viveva la coppia. L’uomo volle a tutti i costi regalare a Elias un colbacco.

– Ne ho cinque, un tempo cacciavo un po’. Scegli quello che ti piace. Tranne questo, che è un pezzo da museo. L’ho portato al campo di lavoro. In verità ne ho consumati parecchi in vent’anni, ma questo è l’ultimo. Quanto al fiore, la fiamma d’oro, è stato un ladro a spiegarmi dove trovarla. Un giorno ha tentato di evadere, hanno seguito le sue tracce e i cani delle guardie, molossi grandi come cinghiali, l’hanno sgozzato. Mi ha parlato spesso del fiore, quindi immaginavo come avrei potuto trovarlo, una notte, quando fossi stato in libertà. Vedete, adesso mi dico che quella pianta mi ha aiutato a non impazzire. Poiché c’era di che impazzire, in vent’anni. Soprattutto quando pensavo che stavo pagando per tre carretti di letame. Quando sono uscito nel 1956, Stalin era stato gettato alle ortiche. Allora un tizio mi ha detto: “Adesso, Ivan, prendi il suo ritratto e buttalo nel letame, così sarete pari”. Ebbene, non l’ho fatto. Perché ormai chiunque poteva farlo. E poi non mi piace attaccare chi non può più difendersi. Ma soprattutto, non me ne fregava niente, avevo già cominciato a cercare la fiamma d’oro.