Di Aung San Suu Kyi si sta parlando da alcuni giorni. L’ormai nota vicenda ha fatto in modo che balzasse agli onori della cronaca: a causa dell’incursione nella sua abitazione di un bizzarro reduce del Vietnam che ha tentato di portarle una Bibbia, ora lei rischia di passare 5 anni in carcere. Le condizioni degli arresti domiciliari ai quali era sottoposta, (i termini sarebbero scaduti il 27 maggio), le impedivano, infatti, di ricevere ospiti. In ragione di questo episodio, i tg le stanno dedicando quotidianamente alcuni secondi al giorno, i giornali qualche spazio in più. Peccato che i media, in generale, stiano omettendo sbadatamente i particolari più significativi della vicenda e della persona. A iniziare dal contesto in cui tutto ciò avviene.



Della Birmania – oggi Myanmar – si dice, genericamente, che sia un Paese sottoposto a dittatura. Non basta. Dittatura, sì. Ma una delle più feroci al mondo. Lì un cruento regime di sostanziale matrice marxista è al potere da decenni. Il carcere, la tortura e la morte per i dissidenti politici sono all’ordine del giorno. Alla “normale amministrazione” comune a tutti i regimi si aggiungono alcune pratiche che lo rendono particolarmente scellerato. Per dirne una, ogni famiglia birmana deve destinare almeno un proprio membro ai lavori forzati. Sia pure una donna o un bambino.



Il padre di Suu Kyi era il ”Bogyoke” (maggior-generale) Aung San. Nel 1942 costituì l’Esercito d’Indipendenza Birmano e liberò il Paese dal giogo britannico, prima, e giapponese più tardi. Amatissimo dalla popolazione che lo considera tuttora il padre della moderna Birmania, fu assassinato nel ‘47. Suu Kyi entra in gioco nell’’88. Conduceva da anni una serena esistenza in Inghilterra, pluri-laureata, sposata con un professore di Oxford e madre di due bambini. Tornata in patria per passare gli ultimi giorni con la madre morente, assistette all’instaurazione del regime militare che impose la via birmana al socialismo. Quell’anno i soldati spararono su una folla immensa di manifestanti inermi, uccidendone migliaia. Il generale Aung San morì quando lei era troppo piccola per averne dei ricordi. Ma il semplice fatto di essere figlia di suo padre la faceva sentire responsabile della propria gente.



Decise di rimanere in Birmania. Fondò un partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, che il 27 maggio del ‘90 ottenne una maggioranza schiacciante all’assemblea costituente: 392 membri, su un totale di 485. A quel punto lo Slorc (Consiglio di restaurazione della legge e dell’ordine di stato), con l’avallo dell’esercito, invalidò sfacciatamente le elezioni. Tutti i membri dell’Nld furono incarcerati e Suu Kyi messa agli arresti domiciliari. Liberata e incarcerata a più riprese, ogni volta che poteva, girava in lungo e in largo il suo Paese. Incontrava la gente nei villaggi per esortarli a non avere paura e teneva dalla sua casa di Rangoon i “discorsi della Domenica” di fronte a migliaia di sostenitori. Al primo erano presenti mezzo milione di ascoltatori.

E in tutta la sua attività politica o nei suoi scritti, la stessa inaspettata nota dominante: la religione e la tradizione come elemento di unità della Birmania. Per il suo popolo Suu Kyi diventa una sorta di guida spirituale. E, in quanto tale, un capo politico. Questo può far specie nell’Occidente secolarizzato. Ma la forza della leader birmana sta nel non aver mai respinto dalla propria vita pubblica riferimenti alla fede e alla trascendenza. «Per garantire al popolo la frescura protettrice della pace e della sicurezza, i governati devono osservare i precetti di Buddha», scrisse in un saggio intitolato In Quest of Democracy. Tutto ciò è insolito per la mentalità europea, abituata a considerare valori e ideali come frutto di processi storici. Una visione, invece, quella di Suu Kyi, che ha sempre considerato l’uomo nell’integralità dei suoi fattori, senza esaurirlo nelle proprie componenti sociali o economiche. «La dimensione spirituale» disse in uno dei suoi discorsi «diventa particolarmente importante in una lotta in cui convinzione profonda e impegno mentale sono le armi principali contro la repressione armata».

Religiosa e devota alla propria storia. E per questo in grado di elaborare un laicissimo pensiero politico: «La fonte del coraggio e della resistenza di fronte al potere scatenato è generalmente una salda fede nella sacralità dei principi etici combinata con la certezza storica che, malgrado tutte le sconfitte, la condizione umana abbia per fine ultimo il progresso spirituale e materiale. Non si possono accantonare come obsoleti concetti quali verità, giustizia e solidarietà, quando questi sono gli unici baluardi che si ergono contro la brutalità del potere». scrisse in Liberi dalla Paura, uno dei suoi saggi più noti. A che è valso tutto ciò? Per lo meno cinquanta milioni di Birmani credono ancora nella libertà. E sono convinti che prima o poi assumerà la forma politica della democrazia.

(Paolo Nessi)