Stretti gli uni agli altri, scudo contro scudo, aspettano che il nemico attacchi.

Dall’alto della collina non distante da Poitiers, nel nord-ovest del regno, i franchi attendono il momento della verità, quando i guerrieri che si parano loro dinnanzi romperanno gli indugi e attaccheranno. Hanno seguito il loro emiro Abd al-Rahman verso nord, oltre i Pirenei, saccheggiando e distruggendo. Sembra che non vi sia nessuno capace di fermare questi combattenti dalla pelle scura, favellanti in una lingua sconosciuta, sorti quasi dal nulla, dalla penisola arabica, circa un secolo prima e, di ondata in ondata, capaci di abbattere i sasanidi in Persia e giungere sino in Cina, conquistare la Siria a danno dei bizantini e stringere d’assedio la stessa Costantinopoli, sottomettere l’intero nord Africa, superare le colonne d’Ercole e invadere la Spagna, abbattendo il regno visigoto. Hanno conquistato anche il sud del regno franco (Narbona, Tolosa…) ed ora eccoli qua, nel cuore del regno. Chi resisterà davanti a loro?



Il sovrano franco ha mandato il suo braccio destro, il maestro di palazzo Carlo. Con lui vi è praticamente l’intero esercito da campo dei franchi, sull’altura vicino a Poitiers. Se perderanno, il regno vacillerà, probabilmente crollerà. Ma a cadere sono gli invasori musulmani: dopo due giorni di battaglia, tra il 25 e il 26 ottobre del 732, i franchi hanno la meglio, Carlo diviene il Martello – l’utensile, certamente, ma anche il «piccolo Marte» – e soprattutto gli «europei» hanno vinto.



Proprio così, infatti, parla una fonte dell’epoca: la vittoria dei franchi a Poitiers fu la vittoria degli europenses contro un nemico esterno e aggressore. Si rinnovava dunque – anche se le circostanze erano affatto diverse – il mito di Maratona e Platea, mito fondatore della mentalità greca e occidentale, e che propugnava la difesa della libertà – la Grecia allora, l’Europa dei franchi nell’VIII secolo dopo Cristo – contro la tirannide e l’aggressione – la Persia nell’Antichità, l’Islam nell’Evo che chiamiamo di Mezzo.

Il fatto poi che quello stesso popolo – guidato per giunta dalla stessa dinastia, quella dei pipinidi e poi carolingi, di cui Carlo Martello fu esponente di spicco – fu capace di unificare politicamente e culturalmente un’amplissima parte della geografia dell’Europa intesa come continente – e la cosa naturalmente fu soprattutto merito del nipote Carlo Magno – portò al formarsi di una forte novità nella continuità, ovvero lungo la storia di ciò che intendiamo solitamente con la parola Europa.



La grandezza dei greci era, infatti, rimasta sostanzialmente limitata geograficamente, sia pure considerando le colonie nel mezzogiorno italiano e in Asia Minore e ovviamente tralasciando l’esperimento di Alessandro Magno. I romani, invece, avevano saputo spaziare molto più in latitudine e longitudine, ma avevano conosciuto un irreversibile arresto lungo il Danubio (sconfitta di Varo nella selva di Teutoburgo, 9 d.C.). Con i carolingi, invece, entrarono nell’orbita «europea» popoli sino ad allora estranei, politicamente e culturalmente, a quella tradizione.

Dunque qualcosa permaneva, potente; qualcosa si perdeva (sostanzialmente il sud del Mediterraneo); e qualcosa era del tutto nuovo. L’intuizione grandiosa di Carlo Magno, coadiuvato dal celebre Alcuino di York, fu quella di riutilizzare il latino come lingua comune, talmente ricca e densa di storia da saper vincere la sfida di una nuova vita, tanto che essa sarebbe rimasta la lingua della cultura alta sino al XIX secolo. A fianco di questa si scommise anche sulle lingue «rustiche», poi dette «romanze». L’esempio forse maggiore di tale novità, che ampliava enormemente il campo della cultura e della partecipazione ad essa, fu la direttiva di predicare al popolo in lingua volgare durante i sacri misteri, perché tutti potessero capire il messaggio divino (sinodo di Francoforte, 794). Dunque l’unità fu ricercata attraverso processi sia di inculturazione – adeguamento del messaggio alle strutture mentali del ricevente – sia di acculturazione – elevazione delle strutture mentali del ricevente al livello del messaggio. Un binario duale che sarebbe rimasto attivo ben oltre l’esperienza carolingia.

Perché l’altra enorme e decisiva novità che il Medioevo mise in campo nella storia d’Europa fu appunto il Cristianesimo. Una religione importata – e dall’Asia – e già trionfante sotto il Tardo Impero romano, ma divenuta cifra essenziale dell’Europa soprattutto nei lunghi secoli medievali, quando l’antica definizione di popolo fornita da Cicerone (il popolo non è «ogni accozzaglia di uomini convenuti per caso ma un insieme ben ordinato di persone unite dalla condivisione dei principi e del bene comune», ricordata su queste colonne da Alfredo Valvo) si scoprì vera sotto i principi e il bene comune cristiani.

Che la religione cristiana – e poi sempre più «romana», nel senso di determinata dal centro della Roma cattolica, non più imperiale – fosse la vera matrice agglutinante del continente europeo e dei suoi popoli lo si ricava anche da un altro elemento: il fatto cioè che la parola più diffusa per identificarli e identificarsi fu «Cristianità».

Ma cosa significava precisamente? All’inizio della storia della Chiesa «cristianità» indicava semplicemente la comunità dei seguaci di Cristo, cioè l’insieme dei cristiani, confondendosi quindi con la nozione stessa di Chiesa. Con il Pieno Medioevo (secoli XI-XIII), quando ormai i popoli e i poteri presenti sul territorio europeo erano stati cristianizzati, si cominciò ad affermare un’idea sociale e territoriale della Cristianità (ormai scritta con la maiuscola), che divenne quindi l’insieme dei popoli cristiani viventi in uno spazio altrettanto cristiano, segnato cioè da luoghi santi per i cristiani. La Cristianità fu dunque intesa come l’unione dei popoli cristiani d’Europa, ma anche oltre, perché proiettati idealmente ad estendersi su tutta la terra; in questo senso la Terrasanta era vista come parte integrante e anzi originaria della Cristianità stessa.

In tale visione si fondevano due elementi principali: l’antico universalismo di Roma, ereditato dagli imperatori medievali a partire da Carlo Magno e dallo stesso papato, e la spinta evangelizzatrice della Chiesa (si pensi per esempio alla cristianizzazione dei popoli slavi cominciata con Cirillo e Metodio nel IX secolo).

Questa «Europa cristiana» fu capace di unificare, sia pure con faticosi contrasti mai del tutto sopiti, etnie e tradizioni profondamente diverse, sotto un unicum immateriale ma al contempo profondamente vivificante, di natura essenzialmente cristiana. E si ricordi che il Cristianesimo del Tardo Impero aveva già vinto – pacificamente – la sfida di assimilare la grande tradizione di pensiero e di cultura – filosofia, diritto, linguaggi – di Atene e di Roma, consegnando quest’altra novità al Medioevo. Pilastri della «visione» medievale furono dunque alcuni elementi caratteristici ed essenziali, di cui siamo ancora eredi, sia pure in maniera indebolita e spesso – ahinoi – incosciente. Eccone alcuni.

La distinzione tra potere temporale e spirituale, un distinguo che portò a scontri anche molto duri ma che garantì una chiarezza di ruoli e compiti non riscontrabile in altre civiltà.

La compenetrazione feconda tra ragione e fede, chiamate rispettivamente – anche qui, con distinzione ma non necessariamente con conflitto – a mostrare i propri presupposti di verità e le proprie possibilità di salvezza; un impianto da cui sgorgarono le università – filosofia, diritto, medicina e teologia le facoltà di partenza – per fare solo un esempio ineguagliato in tutto il mondo.

Una nuova concezione dell’uomo e del lavoro, che produsse i regimi parlamentari e i comuni, le cattedrali romaniche prima e gotiche poi, la liberazione dell’immaginazione e della creatività umane contro l’aniconicità degli altri monoteismi storici (Ebraismo e Islam), la sublimazione dei concetti di individuo, persona e società in termini ignorati in altre civiltà.

Una floridezza economica fondata sulla libera intrapresa, con la razionalizzazione del paesaggio europeo a fini di sviluppo, l’apertura di fiere regionali e internazionali (che presuppongono reti di comunicazione e logistica all’altezza), strumenti monetari e finanziari ancora oggi usati (l’assegno, per dirne uno), innovazioni tecnologiche determinanti come l’albero a camma, ancora presente in quasi tutte le autovetture del mondo.

Si potrebbe continuare, ma vale la pena di ricordare che l’Europa di allora ebbe anche limiti forti, come per esempio il rigetto degli eretici, di quanti cioè non accettavano il credo comune. Ebbe anche nemici inassimilabili, come i musulmani, perennemente protesi – tra alti e bassi, va da sé – alla conquista di quella «terra della guerra» che era – ed è – per l’Islam l’Europa cristiana.

E noi? Quali sono i nostri pilastri? Quali i nostri nemici? Sono domande ineludibili, anche se scomode. Senza dimenticare che siamo parte di una storia: «Il mondo europeo, in quanto europeo, è una creazione del Medioevo», scrisse Marc Bloch; più modestamente, penso sia una creazione di Atene, Roma e Parigi.

Da difendere, quando necessario.