Nemmeno contro questo peccato gli sembrava di avere da proporre alcun insegnamento valido, a meno che non lo fosse la sua stessa persona che puzzava di acquavite nella stalla.
«La sua stessa persona». È proprio il mistero racchiuso in queste semplici parole a costituire il cuore del grande dramma raccontato ne Il potere e la gloria di Greene, un dramma che riguarda il cammino di ogni cristiano, quale che sia la sua posizione, la sua situazione nella vita del mondo.
Il lettore si trova immerso fin dalla primissime battute della storia in un mondo afoso, soffocante, sotto un sole spietato e nugoli di zanzare, ma il calore, l’afa, lo stordimento si rivelano niente più d’un pallido riflesso del clima umano e spirituale realizzato dalla rivoluzione messicana, che ha bandito la Chiesa e ne ha imprigionato ed ucciso i sacerdoti: privato dello sguardo di Dio, del Suo orizzonte, l’uomo si è ritrovato solo con sé stesso in un “pianeta abbandonato”, preda non solo dei propri peccati ed errori, ma ancor più della propria spietata misura, la quale è capace solo di schiacciare e accusare sempre più, ancora e ancora. Ed ecco, c’è chi si rintana nel compromesso e nella mediocrità, senza però mai sfuggire ad un più o meno esplicito senso d’invincibile oppressione; chi invece, per non provare la minima compassione per la debolezza della carne si aggrappa e dedica con fanatico accanimento alla gelida utopia d’un avvenire radioso, senza più bisogno di perdono e destino, un’utopia che, in nome d’una pace e d’un amore astratti e impersonali, non si fa mai troppo scrupolo al presente di umiliare, torturare ed uccidere; chi continua semplicemente a strappare brandelli di felicità confusa nella violenza del peccato. Dentro tutto questo, nella “crudele mischia degli uomini” l’ultimo prete rimasto senza abiurare si trascina da una parte all’altra dei villaggi più abbandonati, sempre in fuga, braccato senza sosta e senza pietà dai nemici esterni ed interiori: da una parte la polizia, i delatori, la diffidenza della gente, la fame e la sete che lo costringono spesso a contendere pezzi d’osso ai cani selvaggi; dall’altra le macerie della sua indegnità, la sua debolezza di “prete-spugna”, consumato dall’acquavite e capace di dilapidare persino il pochissimo vino faticosamente conservato per la Messa, dilaniato dal peso delle sue gravi incoerenze e debolezze, perennemente sul baratro dell’ultima disperazione, quella di credersi divorato senza scampo dal sue stesso limite, un dannato che depone Dio sulla bocca della gente, eppure sempre capace, ancora e ancora e ancora, laddove tutti sono fuggiti o hanno ceduto, di dire sì al grande compito che ha investito la sua vita: ma era ancora da lui che prendevano Dio, Dio nella loro bocca. Senza di lui sarebbe stato come se Dio, per tutto quel tratto dalle montagne al mare, avesse cessato di esistere.
E così egli porta sé stesso a quella gente stanca, oppressa e spesso cinicamente indifferente, porta sé e tutti propri limiti, offrendosi quasi sempre al dileggio e al disprezzo, ma è così, proprio così che egli può portare loro anche quel Dio che si è legato alla sua persona per sempre nel sacramento della sua povertà offerta, fino al sacrificio più straziante.
Dentro all’unica vera grande rivoluzione che ci sia, quella messa in moto dalla presenza del Suo Signore e Maestro, anch’egli è un segno di contraddizione, per il quale si svelano i pensieri di molti cuori: davanti a questo sacerdote schiacciato dalla propria miseria umana, che continua a sperare che arrivi qualcuno migliore di lui, finalmente quello che ai suoi occhi sarebbe un uomo buono con il fuoco dell’amore, tutti sono chiamati a prendere posizione, ed ecco emergere la piccineria, la codardia, ma anche le impensabili profondità ed il coraggio e soprattutto, sotto mille forme e magari mille camuffamenti, l’insopprimibile anelito d’ogni uomo per un sguardo più grande dell’umana misura, per una presenza capace di strappare dalle sabbie mobili del male. Ed è proprio ciò che si fa strada fino a loro attraverso i gesti e le parole di quell’uomo debole e braccato, ma che sa sempre scorgere e commuoversi per l’immagine di Dio anche nel più degradato dei suoi fratelli.
Questa terribile caccia all’uomo, che è al contempo un doloroso cammino di spoliazione e sacrificio, raccontata con tanta maestria e profondità, è davvero un grande dono: in essa G. Greene, superando come forse solo in “Fine di una storia” la costante tentazione della propria narrativa a ripiegarsi sull’analisi dei suoi dubbi e delle sue lotte, ci ha testimoniato ciò che “porta” la vita stessa del suo protagonista: in fondo, l’unica cosa che possiamo davvero donare agli altri siamo noi stessi cambiati dall’amore che ci ha raggiunti e fatti suoi per sempre.