Tra i martiri sconosciuti del XX secolo vengono alla luce, magari per caso, delle figure di grande bellezza, come quella di Georgij Osorgin: un giovane ufficiale zarista fucilato a soli 36 anni nella notte tra il 28 e il 29 ottobre del 1929 per aver salvato e aiutato molti compagni di detenzione. Ne offre una esauriente biografia il numero in uscita di «La Nuova Europa», il bimestrale della Fondazione Russia Cristiana.
Quelli come Osorgin, catalogati come «ex», rientravano nel novero dei «senza diritti» ai quali si poteva togliere impunemente la casa, la libertà e anche la vita.
E furono esattamente queste le tappe attraverso le quali Osorgin passò tra il 1918 e il 1929 non risparmiandosi mai e cercando di dare tutte le sue energie per sostenere quelli che gli stavano vicino: i suoi familiari come i suoi compagni di prigionia.
Georgij era cresciuto in una numerosa famiglia della nobiltà russa profondamente legata alla tradizione ortodossa. La rivoluzione piombò come un uragano sulla famiglia Osorgin: furono privati di tutti i beni, costretti a dividersi e quasi tutti emigrarono all’estero. Anche nelle situazioni più difficili Georgij non cedette alla demoralizzazione, la sua fede crebbe invece di perdersi, e divenne anzi l’orizzonte entro il quale i fatti della vita trovavano un senso; così, ad esempio, nei messaggi che scrisse dalla prigione colpisce il distacco con cui accettò sin dall’inizio la possibilità di non tornare. In un biglietto indirizzato alla moglie pochi giorni dopo l’arresto, avvenuto nel marzo del 1925, invece di rassicurarla sulla propria sorte sembrò voler preparare se stesso e la famiglia alla propria morte: «Che Dio vi aiuti tutti. Pregate anche per me e mantenete la calma: non mi preoccupo per me neanche un minuto, il mio pensiero va a voi che restate… Vi benedico tutti e prego per voi, ma ricordate che terrò alta la mia bandiera e la stessa cosa aspetto da voi». In un altro biglietto scritto su un fazzoletto fu anche più esplicito: «Non ho paura della morte, adesso so che saprò sempre come morire».
Nel 1928, dopo tre anni di prigione, venne trasferito presso il lager delle Isole Solovki sul mar Bianco e anche qui trovò il modo di aiutare tantissime persone. Divenne aiutante della sezione sanitaria e riuscì a far ricoverare o assumere presso la sezione molti detenuti, soprattutto preti e intellettuali che, in questo modo, venivano sottratti ai terribili «lavori comuni» ossia alla morte certa. Si prestava poi per ogni genere di servizio: consegnava messaggi, organizzava incontri fra le persone, recapitava qualsiasi cosa, compresa l’eucaristia per i moribondi. Era sempre attivo e si spendeva per tutti, faceva ininterrottamente la spola tra i vari uffici del campo. Il suo atto più eroico fu quello di non cercare di sopravvivere per i suoi, ma di prodigarsi per tutti rischiando la fucilazione.
Questo fuoco di carità si manifestò come totale donazione di sé nell’ultimo incontro con la moglie. Solženicyn descrive l’episodio nell’Arcipelago Gulag, così come gli era stato riportato da testimoni oculari; la circostanza che più lo commuove è l’incredibile amore dimostrato da quest’uomo, che finse per tre giorni di essere contento e pieno di speranze: «Non una sola allusione in una sola frase, non un abbassamento di tono, non un offuscamento degli occhi! Solo una volta, mentre passeggiavano sulla riva del Lago Santo, lei si voltò e vide il marito prendersi la testa fra le mani in preda al tormento. “Cos’hai?”, “Nulla”, rispose rasserenandosi immediatamente», e commenta «Ecco cosa significa la padronanza di sé». Era quel «punto di vista proprio» che per Solženicyn caratterizza gli uomini di fede e li rende liberi di fronte a ogni potere di questo mondo.