Pubblichiamo l’intervento tenuto in Aula lo scorso 17 giugno da Renato Farina, deputato Pdl, in ricordo di Massimo Caparra, il giorno dopo la sua scomparsa

Signor Presidente, colleghi,

Massimo Caprara è deceduto ieri a Milano, all’età di 87 anni L’aula, con le parole del presidente Buttiglione, ha espresso il cordoglio per la scomparsa di questa grande figura della vita italiana. Qui vorrei adempiere il compito di illustrare in poche parole la nobiltà e la profezia testimoniate dal suo percorso di intellettuale e di politico. Questi due mestieri, l’intellettuale e il politico, oggi spesso nominati con disprezzo, sono stati in lui illuminati, anche e specialmente nei suoi tardi anni, dalla giovinezza della coscienza, purificati dal coraggio di scelte che talvolta gli hanno scarnificato l’anima. La coscienza, questa strana dotazione dell’essere umano, gli ha imposto la ricerca della verità a qualsiasi prezzo, anche quello della perdita di affetti e di amicizie.



Nato a Napoli da una famiglia borghese, talento letterario, che sin dalla prima giovinezza frequentava la bottega di Benedetto Croce, ebbe l’incontro decisivo e in fondo tragico della sua vita nel 1944, quando fu esaminato e scelto da Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano, che arrivava da Mosca avvolto dall’aura del mito, come suo segretario particolare e dirigente reale del Partito. Ebbe una sorte simile e alla fine molto diversa, Giorgio Napolitano, di lui più giovane alcuni anni. Ieri il Presidente della Repubblica gli ha dedicato, inviandolo alla famiglia, ed in particolare alla signora Jolanda, un commosso messaggio che leggo: ”Apprendo con grande tristezza la dolorosa notizia della scomparsa di Massimo Caprara. Condivisi con lui le prime esperienze culturali e politiche nella Napoli degli anni di guerra, e nello stesso lontano 1953 entrammo insieme in Parlamento. Nel ricordo dei lunghi anni del suo impegno pubblico, del suo personale e complesso percorso critico nella politica italiana, della sua intensa attività di giornalista e di scrittore, invio le più sentite condoglianze a tutti i familiari, ai quali pure sono stato lungamente legato”.



Come scrive il presidente Napolitano entrò in Parlamento nel 1953, e divenne deputato comunista per quattro legislature, fu sindaco di Portici, ebbe altri incarichi.

Ma la sua vita fu una totale immersione nel cuore del secolo scorso. Era una cosa sola con Togliatti, fino a rinunciare – disse – quasi alla sua personale identità. Non sono più io che vivo ma il Partito, ma Togliatti che vive in me.

Fu giornalista di Rinascita, continuò la sua ricerca letteraria. Erano tempi in cui i politici di questa fatta parlavano in latino.

Poi dopo la morte di Togliatti è come se improvvisamente la coscienza di Caprara si fosse liberata da un macigno che le impediva di vedere e respirare.



Si emancipò, molto prima della caduta del muro del 1989, dalla prigione dell’ideologia. Lo fece paragonando i fatti che aveva vissuto, la giustificazione che ne forniva l’apparato, con la sete di umanità che aveva, con il desiderio di piena giustizia che sentiva.

Si ricordò di tante cose. Anche di Stalin. L’incontro che ebbe con lui, nel gelo di un giardinetto, mentre stava in giacchetta è memorabile.

Mentre Nilde Jotti fece in tempo a infilarsi la pelliccia e Togliatti in pastrano, lui rimase in giacchetta. Piangeva dal freddo, letteralmente. Stalin la scambiò per la commozione di trovarsi davanti a lui, e gli disse: Courage, camarade. Poi gli parlò di Capri.

Il primo strappo fu con il Manifesto, e i compagni comunisti che misero sotto accusa la linea del Partito dopo l’invasione di Praga da parte delle truppe del Patto di Varsavia.

Insieme agli altri non fu espulso dal Partito, fu molto più radicalmente “radiato”. 1969. Negli ultimi anni della sua vita, a me che lo frequentavo, mostrò ancora la pena per quella prova. Il patimento umano. La sofferenza non si era rimarginata. Non ero stato espulso ma radiato. L’evento è ben raffigurata da questo episodio per il quale non c’è bisogno di far nomi.

“Appena fui radiato dal Pci, lo incrociai in Transatlan­tico a Montecitorio. Procedeva sulla passatoia rossa con l’incede­re solenne di un alto dignitario. Giunto a un palmo da me, schivò la mia mano tesa. Per scansarmi, fece un’impercettibile deviazio­ne, senza una parola, né uno sguardo, né un sussulto. Sempli­cemente proseguì, come se fossi trasparente. Non fu solo l’annientamento di un rapporto che era stato affettuoso, ma una delibera­ta ingiuria. Mi sentii lo scarafag­gio della Metamorfosi di Kafka, un ciottolo, un inciampo. Il gesto simbolico era un mostruoso anti­cipo di quella cancellazione del­l’altro, tipica del comunismo, che prelude a ogni tipo di violenza”- e furono gli anni 70.

In seguito non gli bastò nemmeno l’essere un ateo, libero pensatore, vagheggiante utopie.

Scrisse libri su quella sua esperienza. Fu un percorso di grandi lacerazioni. E attacchi a lui e alla sua persona. Non gli si rimproverava il cambio di prospettiva, ma il suo dichiararlo in pubblico, il suo rinnegamento senza filtri di moderazione di quella che era stata la sua vita, il suo tutto, il comunismo. Gli domandai anch’io il perché di quel grido dai tetti. Mi disse: io mi assolvo non ho il diritto di tacere. Ora questo diritto gli è stato dato dalla morte. Ma bisogna che la sua esperienza continui a parlare.

Recuperò la figura di Gramsci, su cui scrisse libri bellissimi, e come lui percorse una via verso il cristianesimo, non un cristianesimo ideologico, non una cultura cristiana senza credere, ma un abbandono ad alcuni incontri che lo condussero all’abbraccio del Nazareno. Prima attraverso la lettura del Vangelo poi grazie alla figura di don Luigi Giussani. Sono certo che ora ci guarda, con la sua coscienza giovane e piena di umanità. Il suo ultimo libro si intitola “Riscoprirsi uomo”. Credo sia il suo insegnamento.