Esce in questi giorni il volume biografico di Andrea Tornielli sul papa Giovanni Battista Montini (“Paolo VI. L’audacia di un papa”, Mondadori, Le Scie, 722 pp.). Si tratta di un lavoro cospicuo e intelligente, innanzitutto perché consapevole dei limiti attuali nelle possibilità di ricostruzione della figura del pontefice bresciano, determinati sia dalla prossimità della sua vicenda, che ancora tende a mescolare i dati oggettivi con il flusso della memoria dei testimoni, sia dalla ancora parziale disponibilità delle fonti attualmente attingibili.
Su quest’ultimo versante è però individuabile uno dei guadagni del lavoro di Tornielli, e cioè il suo sforzo di raccogliere e coordinare documenti nuovi e già noti, muovendosi su larga scala rispetto alle situazioni e ai contesti dell’esperienza montiniana – dalla ricca documentazione edita di testi e studi prodotta dall’Istituto Paolo VI di Brescia, alle carte inedite del segretario della CEI negli anni Sessanta, mons. Alberto Castelli, ai fondi relativi ai cardinali Dell’Acqua e Tisserant, sino infine ai documenti messi a disposizione dalla famiglia Pacelli e dal senatore a vita Giulio Andreotti – , e avvalendosi di testimonianze orali inedite che aiutano a precisare aspetti in parte già noti e studiati, come, ad esempio, quella del presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga sul caso Moro (p. 606).
Un altro merito di questo “Paolo VI” è individuabile nella volontà dell’autore di confrontarsi con gli studi (e gli studiosi) recenti che più o meno direttamente hanno toccato Montini e la sua opera di sacerdote, vescovo e papa (come Giselda Adornato, esperta soprattutto del Montini “milanese”, o chi scrive per i rapporti con Siri e la CEI, oltre ai maggiori esperti attuali di storia della Chiesa contemporanea, a partire da Andrea Riccardi).
Uno degli aggettivi avvicinati al papa bresciano lungo tutto il volume è “frainteso”, espressione in cui, in qualche modo, Tornielli legge l’attuale percezione della testimonianza montiniana: Montini fu generalmente “criticato da sinistra e da destra” ed “equivocato “proprio dai suoi amici” , frainteso per la discussa «scelta religiosa» che lui additò per l’Azione Cattolica (p. 3), così come è rimasto incompreso il suo sforzo di “conciliazione” tra le varie anime della Chiesa durante il Vaticano II, secondo l’autore: «da quanti hanno ritenuto che il concilio fosse il principio di un’era assolutamente nuova, di totale rottura con il passato, così come da coloro che hanno visto nell’evento conciliare l’inizio della fine del cattolicesimo». Una crescente incomprensione – al limite della testimonianza eroica nell’isolamento, aggiungiamo – di cui l’enciclica “Humanae Vitae” resta senza dubbio l’emblema più vivido, «il documento che ha segnato il massimo isolamento del papa bresciano» (p. 4). Resta forse esemplare sul piano caratteriale l’episodio, innocente e strumentalizzato, della “fucina ardente” che segnò il declino della stella montiniana nella FUCI (p. 111). Di ben altro spessore è poi il passaggio conciliare – già in parte studiato, anche da chi scrive – della “Nota Praevia” del papa sul tema della collegialità (p. 398), conosciuta prevalentemente per essere stata considerata una difesa offerta da Montini al primato petrino, forse uno dei momenti di maggiore vicinanza registrato con il presidente della CEI card. Giuseppe Siri, secondo un’altra pregiudiziale interpretazione – suo “contraltare” nelle correnti di pensiero dell’episcopato peninsulare. Di grande impatto pastorale fu poi l’equivoco in cui – secondo Tornielli – cadde un passaggio della “Populorum Progressio”, che in effetti suscitò, tra le altre, l’ansiosa reazione di Giovanni Spadolini circa le potenziali strumentalizzazioni anticapitalistiche da parte del mondo comunista (p. 459); riguardo a queste due grandi – e forse troppo anticipatrici per riscontrare un’immediata condivisione – encicliche montiniane, Tornielli cita anche gli equivoci più marchiani, come quelli dell’americano “Time”, sottolineando la “profeticità” (e si potrebbe quindi aggiungere l’inattualità) del papa bresciano (ivi). Ma il tema del fraintendere, o meglio lo scongiurare tale eventualità nell’esercizio intellettuale e pastorale, fu pure una cifra di Montini, come quando precisava il significato cristiano del termine “rinascere” nel contesto della Rivelazione (p. 451), o quando nell’esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi” del 1975 avvertì l’esigenza di precisare che «il Vangelo, e quindi l’evangelizzazione, non si identificano certo con la cultura, e sono indipendenti rispetto a tutte le culture», tuttavia il regno, «che il Vangelo annunzia, è vissuto da uomini profondamente legati a una cultura, e la costruzione del Regno non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane» (passi dell’esortazione citati a p. 578), oppure ancora quando, nel contesto della drammatica esperienza della Chiesa cattolica nel mondo sovietico, Montini si premurava di precisare che l’ “Ostpolitik” vaticana, improntata sempre al dialogo costruttivo, non andava fraintesa quasi fosse un atteggiamento di debolezza, “acquiescenza o di rassegnata accettazione” delle persecuzioni (così Montini, p. 583).
Lo scavo biografico di questo “Paolo VI”, in definitiva – pure visto dalla prospettiva privilegiata di chi, come lo scrivente, ne ha seguito abbastanza assiduamente le fasi di costruzione e scrittura – , ha soprattutto il merito di riportare l’attenzione della cultura e dei media italiani sulla figura di un pontefice sinora immeritatamente “schiacciato” tra i profili di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II (se si esclude una recentissima riproposizione televisiva), soprattutto in ragione dell’esito dei suoi ultimi, faticosi anni, un papa “vecchio e aggredito dall’artrosi, che aveva chiesto in ginocchio «agli uomini delle Brigate Rosse» la liberazione di Moro e aveva quasi rimproverato Dio per non aver esaudito la preghiera di salvare la vita dello statista”; un papa che, nella felice espressione di Tornielli, se ne andò “in punta di piedi” (p. 622). Un uomo di Chiesa che, peraltro, condusse “in porto” il Vaticano II e segnò profeticamente con alcune grandi intuizioni pastorali la vicenda del cattolicesimo che lo avrebbe seguito, obbedendo oltre ché alla fede ed alla vocazione, a quell’ “audacia” che già la madre aveva constatato in lui, e di cui i fratelli narrarono a Jean Guitton, come nota Tornielli nella sezione dedicata alla giovinezza di Paolo VI (p. 35), senza dubbio una delle parti più efficaci del volume.