Vivo a New York da qualche mese, città-mecca per chiunque si occupi di arte contemporanea, e il cui prestigio o la cui avanguardia non sono scalfite se non a parole, almeno per il momento, dalla crisi mondiale che ha investito tutti i mercati, compreso, quindi, quello dell’arte.

Lavorando a Chelsea, il quartiere dell’arte, mi capita spesso di gironzolare per le strade e infilarmi nelle gallerie col desiderio di carpire qual sia la strada principale che gli artisti stanno battendo ultimamente, sempre si possa parlare di “strada principale” in un mondo dove tutto cambia velocemente e dove la soggettività dell’artista, il suo way of thinking, almeno teoricamente dovrebbe avere la meglio. Dico “dovrebbe” perché naturalmente sul genio artistico pesano concretamente le necessità della vita quotidiana, il bisogno di denaro e, perché no, di fama e di rapporti.



L’allenamento dell’occhio è ciò che maggiormente sto cercando di sviluppare qui a New York: guardare, osservare, mescolarmi con ciò che vedo per trovarne un senso, per capire se dice qualcosa a me. Questo mi interessa in quanto l’artista, non bisogna dimenticarlo, è da sempre qualcuno che, per un talento, innato e/o educato, riesce a trasmettere ad altri, i cosiddetti spettatori, delle sensazioni, delle emozioni, dei pensieri, delle regole che, nella maggior parte dei casi, vive in prima persona.



Tale concetto di arte seppure più nascosto, credo si possa riscontrare anche nell’arte contemporanea, sebbene vada considerato come, a causa del mondo in cui viviamo dove è tutto fortemente relativizzato, in pochi osano prendere posizioni forti e anticonformiste, preferendo spesso ristagnare nella banale satira o ironia contro status quo politici o religiosi che, francamente, lasciano il tempo che trovano. Mi riferisco, per parlare più chiaramente, ad esempio, alla rana crocifissa, opera di quello stesso Martin Kippenberger di cui, pure, ho ammirato la retrospettiva al MOMA e che trovo essere uno dei più grandi artisti tedeschi dei nostri tempi, ma di cui, almeno in Italia, si è riduttivamente parlato solo per questo lavoro, probabilmente dandogli molta più importanza di quanto non meritasse. Naturalmente in questa macchina di relativismo giocano un ruolo forte critici e curatori che hanno il potere di mitizzare o annebbiare un artista in un breve arco di tempo. Non ho desiderio qui di polemizzare, senza titolo e inutilmente, quanto al contrario di raccontare, partendo da questi presupposti, più o meno chiari, che l’allenamento dell’occhio e una predisposizione curiosa verso ciò che un altro può esprimere con il linguaggio artistico possono trovare interessi comuni nei luoghi più impensabili.



Sono stata recentemente al PS1, la giovane branca del MOMA che si trova nel Queens, e mi piacerebbe riportare alcune impressioni che ho tratto da due lavori in cui mi sono imbattuta.

Il primo è un’installazione da titolo “Swimming Pool” di Lenadro Erlich, artista argentino di formazione architettonica, che gioca con gli spazi creando dei piccoli giochi ottici.

Appena entrati nel museo, al piano terra, ci si trova sul bordo di quella che appare senza dubbio una tradizionale piscina con tanto di fondale azzurro e scaletta per l’immersione. Improvvisamente, osservando il fondale, si possono notare persone, visitatori che sembrano camminare “sott’acqua”, con la classica macchina fotografica da turisti alla mano…ecco il trick. L’artista gioca con il suo spettatore permettendogli così di compiere un’esperienza attiva di scoperta lenta e di rivelazione di ciò che è reale. Infatti si scopre, scendendo una rampa di scale, che la piscina non è ciò che sembrava alla prima occhiata. Si tratta, in realtà, solo di uno strato di acqua chiuso nel plexiglass sotto il quale si apre una stanza dai muri azzurri dove chiunque può liberamente camminare. Azione-rivelazione-realtà-fantasia-ruolo dello spettatore-ruolo dell’artista: non male come spunto di riflessione, come metafora della vita fatta da molta osservazione e poco ragionamento.

Il secondo lavoro è di Florian Slotawa, giovane artista tedesco, residente a Berlino, che espone per la prima volta in una personale a New York. Mi ha incuriosito la sua installazione nella Mini Kunsthalle al secondo piano del museo. Il lavoro di Slotawa si intitola Besitzarbeiten e consiste nella ricomposizione e ricontestualizzazione di oggetti di uso quotidiano. L’artista utilizza gli elettrodomestici e i mobili del suo appartamento berlinese per costruire un’installazione che si pone come motivo di connessione fra l’artista e l’istituzione museale stessa. Una volta terminata la mostra tutto l’arredamento tornerà nella casa di Slotawa, in perfetto stato. Trovo interessante un lavoro di questo tipo perché nell’apparente banalità estetica – “apparente” perché, a ben guardare la struttura, si può notare una ricerca anche in quella direzione – ci si trova di fronte all’uomo artista che all’interno di un’importante istituzione americana porta qualcosa di assolutamente personale, come a dimostrare l’interesse per l’essere lì come persona e con la sua storia.

Non sto pensando ad una crociata a favore dell’arte contemporanea, provo solo spiegare la mia curiosità per quello che altri essere umani possono dire di sé e di quello in cui credono oggi, negli stessi anni in cui vivo io, di fronte alla stessa realtà. Certo nella maggior parte dei casi l’opinione, il punto di vista è diverso, ma questo non fa che aiutarmi ad essere più certa di ciò in cui credo e ad essere, di conseguenza, più aperta al confronto e al dibattito, elementi grazie a cui la mia personalità non può che uscirne arricchita.

(Cecilia Torchiana)