Ogni 28 giugno, nel silenzio dell’Europa, passa il ricordo di quel giorno di Sarajevo. Era il 1914, quando Gavrilo Princip scoppiò il colpo della sua pistola contro l’arciduca Francesco Ferdinando, ultimo erede al trono di quell’impero Asburgico che un tempo chiamavano Sacro e Romano. Era il 1919, quando, esattamente cinque anni dopo, il 28 giugno, le potenze vincitrici della guerra sigillavano, nella firma del trattato di pace di Versailles, la fine della più grande guerra che l’umanità avesse conosciuto fino ad allora. Finiva la Grande Guerra, proprio novant’anni fa (anche se un’altra ancora più grande si stava preparando per il futuro), finiva la prima guerra “mondiale” della storia, come la si volle chiamare per differenziarla dalle altre, per la sua natura “globale” e “totale”, quella guerra che portò non solo all’eliminazione degli ultimi due imperi, quello asburgico e quello ottomano, dichiaratamente teo-centrati (con la prima riconquista occidentale, dopo secoli di dominazione araba, del Medio Oriente) ma anche alla crisi del progetto di emancipazione universale della modernità progressista e scientista della Belle epoque (con la consegna dell’Europa nelle mani di Wilson e le due rivoluzioni sovietica e fascista).



Anche a distanza di 90 anni, l’Europa porta ancora su di sé la cicatrice di questa violenza irrefrenabile ed imprevedibile: non solo quella che il tocco della Madonna ha curato, apparendo a Fatima nel 1917 (l’annus horribilis del conflitto), ma soprattutto quella spettrale che, attraverso l’incubo dei totalitarismi e della seconda guerra mondiale fino alle guerre balcaniche, ha segnato e percorso tutto il Novecento. E ancora oggi, la memoria latente di quegli eventi, come suggerisce Paul Fussell nel suo La grande guerra e la memoria moderna, costituisce la sagoma recondita del nostro presente e la più segreta delle angosce apocalittiche dell’Occidente.



Il mito creato nel dopoguerra dagli ideologi del progresso per circoscrivere dentro una parentesi virtuale (da 28 giugno 1914 a 28 giugno 1919) l’incontenibile trauma del suicidio europeo e il fallimento degli ideali prebellici (di rinnovamento morale e sociale, di pulizia demografica, della pace perpetua e di una guerra che avesse dovuto porre fine a tutte le guerre), non riuscì infatti a cancellare lo spettro prodotto da questa “inutile strage” (come la definì l’allora papa Benedetto XV): l’incubo di una guerra industriale -fatta delle sole cifre dei morti, della produzione di armamenti- di una guerra di economie –dominata dalla propaganda mediatica e dalla corsa all’invenzione tecnologica più avanzata (come gli aerei da bombardamenti, le bombe a gas o i carri armati)- e di una guerra di concentramento, nelle trincee come nei campi (tra i quali quello di Mathausen raccolse numerosi prigionieri italiani).



Il timore odierno di una guerra globale, le crescenti tensioni economiche, le divisioni politiche all’interno dell’Europa sono segnali che rivelano come quella ferita sia ancora aperta, a tutt’oggi, nel nostro inconscio collettivo. Perché allora ricordare quegli eventi, ora che i protagonisti non sono che uno sparuto gruppo di centenari? E come la memoria di quel passato può rimanere viva?

Nel silenzio del suo scorrere, l’anniversario di oggi -nel primo dopoguerra come nel nostro presente- riportandoci al trauma di quegli eventi, ci pone al limitare di un confine: tra l’esorcismo monolitico di uno shock (attraverso la facciata ideologica con cui, per non dimenticare, il potere dominante riveste gli eventi nella loro celebrazione “ufficiale” ed “autentica”) e una memoria in continuo lavorìo, che non smetta di interrogare il passato per leggere il proprio presente.

L’Italia del primo dopoguerra (come del resto quella repubblicana del post-Liberazione), in bilico -come suggerisce l’inizio della Waste land eliotiana, tra the burial of the dead e l’inizio della nuova vita (April is the cruellest month…)- scelse di cristallizzare l’incontenibile degli eventi attraverso il mito: nella monumentalizzazione di una storia già scritta postuma ancora prima che cominciasse (come dimostra il catalogo di eroi compilato dall’Ufficio storiografico della mobilitazione già dal 1916 volto a comporre il mosaico nazionale dell’Italia unita), nella marmorizzazione dei caduti (le cui liste incise nel marmo o nel bronzo aleggiano sulle piazze di numerosissime città italiane), nell’“autenticità” documentaria della memorialistica bellica, nella sacralizzazione collettiva della Vittoria (a partire dalla città del re, non a caso, Vittorio Veneto). A tale memoria scolpita, fece da pendant, tuttavia, nel silenzio della censura fascista e dell’incomunicabilità verbale di una tale esperienza (come fu per Rebora e Campana), una memoria discreta, fatta del quotidiano confronto e dialogo con la morte, con il lutto, con il trauma irrompente delle proprie domande irrisolte, ed in costante trasformazione: la memoria poetica di trasfigurazione dei propri pochi brandelli di ricordo (dai Trucioli di Sbarbaro ai Rottami di Montale), la memoria indiretta di invenzione (come nelle fiction di Due imperi mancati di Palazzeschi e Vent’anni di Alvaro), e la memoria orale, viva di bocca in bocca e ricca (come testimonia il crescere costante del repertorio corale alpino) di sempre nuove varianti.

A noi europei del 2009, la memoria di quegli eventi (obliterata a posteriori dall’imponenza della seconda guerra mondiale e dalla necessità di coprire la ferita imbarazzante di tale passato) sembra non provocare più molte domande: il passaggio quieto di questo anniversario, in coincidenza con l’avverarsi recente delle elezioni parlamentari di un’Europa finalmente unita, sia dunque non solo l’ambito circoscritto di un ricordo museale mitico o di un dialogo tra esperti, ma soprattutto l’inizio di un lavoro di lettura di quel passato -così simile al periodo di crisi di civiltà che stiamo attraversando- in dialogo con la nostra realtà in continuo cambiamento.