Forse, tra duecento anni, se ancora esisterà una storiografia, gli studiosi resteranno sbigottiti di fronte alla voluttà con cui il nostro continente si è autodistrutto nella prima metà del XX secolo. Lo storico e giornalista Giuseppe Romolotti aveva intitolato un suo brillante saggio “1914: suicidio d’Europa”, edito per Mursia e in quel titolo c’era tutto il rimpianto e tutta l’amarezza per un mondo scomparso. In effetti l’Europa che noi contempliamo oggi sembra essere l’ultimo rudere della rocca di Atlantide se paragonato al grande impero che dominava il mondo all’inizio del secolo scorso.



Fin dal tempo delle Crociate, gli europei, con il loro straordinario e “multiforme ingegno”, avevano dimostrato di poter raggiungere qualsiasi obbiettivo, colonizzando il mondo intero. Solo al tempo della guerra dei Trent’anni era parso che l’Europa centrale venisse distrutta dai cavalieri dell’Apocalisse, Guerra, Morte, Carestia e Pestilenza ma, proprio allora, era maturata la superiorità militare degli europei nei confronti di tutto il mondo (cfr.”La rivoluzione militare” di Geoffrey Parker. Il Mulino). Proprio quella superiorità militare aveva portato le potenze europee a porre i termini del confronto in quel campo particolare e trattare i rapporti fra nazioni in funzione degli eserciti. «Dio sta dalla parte dei grossi battaglioni» diceva Napoleone e così era stato per secoli.



Nel corso dell’Ottocento, dopo le guerre napoleoniche, ogni conflitto era durato poco più di qualche mese al massimo e si era risolto con un numero limitato di vittime: la seconda Guerra d’Indipendenza italiana era iniziata in aprile 1859 e si era conclusa in giugno; la guerra austro prussiana del 1866 era durata sette settimane e quella franco prussiana da agosto 1870 al febbraio 1871. La guerra era dunque il mezzo per risolvere i contenziosi fra le nazioni e al prezzo di qualche migliaio di morti. Del resto, sempre la guerra era la modalità privilegiata per imporre ai popoli extaeuropei “il fardello dell’uomo bianco” e, nei confronti di africani e asiatici non c’erano i limiti imposti dalla cavalleria e dal “bon ton”. Era guerra di sterminio ai limiti del genocidio e i tedeschi, che praticarono questa strategia nelle loro colonie africane, pensarono bene di adottarla anche in Europa, qualora vi fosse stato un nuovo conflitto. Conformandosi al pensiero di Clausewitz ed essendo consapevoli che l’uso della forza senza restrizioni avrebbe abbreviato la durata del conflitto, i soldati di Sua Maestà imperiale fucilarono diverse centinaia di civili già durante la guerra franco-prussiana. Impavidi sul campo di battaglia, i tedeschi non erano disposti a correre rischi coi “francs-tireur”, antesignani dei moderni partigiani. Bastava che fosse ferito anche un solo soldato e preti, sindaco e maggiorenti della sventurata cittadina francese teatro dell’attentato venivano messi al muro.



Ma, alla fine del XIX secolo la prospettiva di una guerra mondiale appariva remota, dato che le grandi nazioni si erano legate fra loro con patti di alleanza tali per cui un conflitto locale avrebbe provocato una conflagrazione globale. “Nessun governante è così stupido” si pensava ma il punto non era questo. Tutte le nazioni avevano predisposto piani di mobilitazione perfezionati quanto rigidi, in modo da portare al fronte milioni di uomini col minimo preavviso. Semplicemente non ci si poteva permettere di essere travolti da un avversario che avesse mobilitato prima e meglio. Se si può fare un paragone poco ortodosso, la situazione assomigliava a un duello “western”. Non si poteva aspettare che l’avversario estraesse la pistola, bisognava cominciare a sparare quando la mano del nemico si muoveva, anche di poco, verso la fondina. Chi aveva avuto il potere di organizzare questo meccanismo gigantesco che trasformava ragazzi in abiti civili, entusiasti e brillanti in macchine da guerra armate di tutto punto? I militari ed erano loro a detenere il potere reale in politica estera, praticamente in tutti i governi europei.

Questi elementi: volontà di potenza, clausewitzianesimo dottrinale, mobilitazione, alleanze furono il cocktail micidiale che portò alla Prima Guerra Mondiale. Se osserviamo lo svolgersi degli avvenimenti vediamo che l’attentato di Sarajevo, in cui vengono uccisi l’arciduca Francesco Ferdinando, è del 28 giugno 1914. Dopo di che ci vuole quasi un mese prima che il governo imperiale indirizzi un ultimatum alla Serbia il 23 luglio, ben sapendo di scatenare una guerra che non sarebbe stata ristretta ai Balcani. L’imperatore Francesco Giuseppe, refrattario a tale scelta, viene forzato dalle lobbies militari, alla ricerca di un successo di prestigio che salvi l’Impero da una progressiva disintegrazione. La guerra contro la Serbia comincia il 28 luglio 1914 ma, subito dopo, la Russia zarista mobilita e, data la rigidità dei piani, mobilita anche contro la Germania: questa, a propria volta, si trova “costretta” a mobilitare ma Schlieffen si impone all’imperatore, dato che i piani sono strutturati per scatenare una guerra anche contro la Francia. In altre parole, i famosi “piani” non hanno alternative, non c’è nessun piano “B”. Così il 30 luglio la Russia mobilita, il 1° agosto la Germania dichiara guerra alla Russia ma la Francia mobilita e, di conseguenza, l’impero germanico dichiara guerra anche alla Francia. Come se non bastasse il “Piano Schlieffen” prevede la conquista del Belgio neutrale e ciò comporterà l’entrata in guerra dell’Impero britannico il 4 agosto.

La guerra sarà, da subito, spaventosa e i tedeschi la renderanno ancora più spietata fucilando centinaia di civili in Belgio e in Francia. Un nome, ricordato da Barbara Tuchmann nel suo “I cannoni d’agosto” resta incancellabile ed è quello di Felix Fivet, fucilato a Dinant con tutti i maschi del paese per rappresaglia: il piccolo Felix aveva tre settimane di vita.

Solo nel primo mese di guerra e sul solo fronte francese i morti saranno centinaia di migliaia. Il ritmo del mattatoio è tale che nessuno pensa che una guerra simile possa durare fino all’inverno. E, invece, la potenza militare capace di scatenare una guerra non è capace di finirla e il conflitto continuerà su tutti i fronti fino all’11 novembre del 1918. Sarà una sorta di guerra d’assedio, con gli Imperi centrali arroccati in difesa e le potenze dell’Intesa, fra le quali rientra anche l’Italia, impegnate a sfondare con attacchi a testa bassa su centinaia e centinaia di chilometri di fronte. Per avere un’idea della vastità della tragedia, basta andare in auto da Basilea a Parigi, passando per Metz e Reims, percorrendo la A5 e poi la A4. Sono più di seicento chilometri di fronte continuo, cui vanno aggiunti quelli da Parigi alla Manica.

Il prezzo di questo massacro, oltre a dieci milioni di morti, sarà il più profondo disordine morale che abbia mai colpito l’Europa. Il totalitarismo sovietico si impadronisce della Russia e, per reazione, nascono altre dittature in Italia e in Germania ma è tutta l’Europa a essere dominata da dittature o governi fortemente autoritari, a eccezione di Francia e Gran Bretagna. Le democrazie appaiono deboli e irresolute di fronte alla forza e alla sfacciataggine dei dittatori ed è ancora il mito della forza a guidare le scelte di milioni di europei che affideranno la propria vita a uomini intraprendenti, carismatici e criminali. E’ risaputo che, ancora una volta e molto più che nella Grande Guerra, la Germania di Hitler avrà caratteri addirittura demoniaci: ma non va dimenticato che la Seconda Guerra Mondiale viene provocata anche dall’invasione dell’Etiopia nell’ottobre del 1935 e dall’entusiastica adesione degli italiani. Ancora oggi ciò che viene rimproverato a Mussolini è la scelta di allearsi con la Germania: una scelta senza dubbio sciagurata ma ben pochi italiani sono disposti ad ammettere che uccidere almeno 200.000 etiopi sia stata una cosa brutta, una cosa che una nazione per bene non fa. Lo studioso tedesco Lutz Klinkhammer, autore di saggi preziosi sull’occupazione nazista dell’Italia, rimase stupito che un giornalista italiano non sapesse nulla della rappresaglia di Debra Libanos del 1937, praticamente le “Fosse Ardeatine” etiopiche. Non è questa la sede per spiegare cosa sia stata la strage di Debra Libanos e sarei curioso di sapere quanti dei miei venticinque lettori ne sono conoscenza. E, tuttavia, il fatto che questo massacro sia stato dimenticato, dalla destra e, soprattutto, dalla sinistra per cui gli unici morti buoni sono i propri, dà la misura di come la logica della forza e del successo, anche se di breve portata è dura a morire negli europei e negli italiani. Ma il prezzo di questa smemoratezza è la mancanza di coscienza di sé, come nazione e come Europa e il nostro continuo rifarci ad altro modelli, dagli Stati Uniti alla Cina maoista. La sfida del XXI secolo, per i giovani europei è molto semplice ed è il ritorno al fondamento della saggezza greca e latina: gnòsi sautòn, gnosce te ipsum a partire dalla nostra storia.