Non passa giorno che non si odano, in qualche parte del globo, squilli di guerra o di rivolta. Chi si aspettava, dopo il crollo del comunismo, un’epoca di pace e prosperità s’è dovuto presto ricredere. Il progetto di un “Nuovo ordine mondiale” ha prodotto la Prima guerra del Golfo già all’inizio degli anni Novanta. E l’11 settembre non ha fatto altro che riproporre quel progetto, legittimato questa volta (più o meno ideologicamente) dalla dottrina dello “scontro di civiltà”.



Ma la pace può essere frutto di un progetto politico e della guerra, più o meno “intelligente” e “umanitaria”? E che cos’è, in fondo, la pace? Non si tratta certo di una mera assenza di guerra: nelle nostre città non c’è guerra eppure non le percepiamo come “in pace”… E che ne è di quella “pace interiore” che tanti cercano spesso inutilmente? Insomma, si può pensare la pace in modo da comprendere tutte queste dimensioni?



Per rispondere a tali interrogativi ci faremo aiutare dai risultati di un workshop che si è svolto a Milano, presso il Museo Diocesano, il 28 maggio scorso. Filosofi, giuristi, storici e psicoanalisti sono partiti dal riconoscimento che il rischio più grosso è quello di oggettivare la pace, di fare un discorso “su” qualcosa concepito come “altro”, come esterno a sé. Non a caso il titolo del workshop (organizzato da Prologos, Associazione S. Anselmo e Communio all’interno del Progetto culturale della CEI) è stato Pensare in pace. Convivenza e giustizia. Non si tratta di “pensare la pace”, dunque, bensì di lasciarsi interrogare in prima persona, nella consapevolezza che si tratta innanzitutto di mettere in questione il rapporto che ognuno ha con se stesso.



Una rilevante conseguenza dell’oggettivazione della pace è l’idea, tipicamente moderna, che essa possa essere istituita attraverso il diritto positivo, senza il quale i vicini divengono inevitabilmente nemici. Allo stesso tempo, tuttavia, i moderni pensano la pace soprattutto attraverso la categoria di fratellanza, la quale è assai difficilmente codificabile dal punto di vista giuridico. Ma che ne è della fratellanza senza il riconoscimento di un padre comune? Non è un caso che tale categoria scompaia ben presto dalle carte costituzionali posteriori alla Rivoluzione francese. Inoltre, da un punto di vista psicoanalitico, che ne è della fratellanza e della sua pace in un’epoca in cui la figura paterna è in profonda crisi e la sua funzione si pluralizza?

È chiaro che con la questione della fratellanza si individua una dimensione pre-giuridica e pre-politica. Di fratellanza parlano le grandi religioni bibliche, le quali però sembrano generare fedi intolleranti e violente. Di ciò si occupò alle soglie della modernità Nicola Cusano – il cui pensiero è stato criticamente ripreso nel workshop. Nel De pace fidei (1453) Cusano immagina un dialogo tra fedeli di diverso “rito”. Se ognuno di loro approfondisce la propria fede scoprirà in essa la fede dell’altro. E tutto ciò è possibile se la fede fa riferimento a qualcosa di non possedibile, vale a dire il Verbo che, non a caso, presiede il simposio. Ciò significa che il prerequisito di un dialogo di pace sta nel mantenimento di un dislivello tra il punto di vista a partire da cui si parla e la Verità. Se i figli sono posti in essere da un Padre, in fondo non si può parlare che nel nome del Padre: la parola vera è la parola dell’Altro.

Se si parte da questo riconoscimento, allora il dialogo è possibile a partire non dagli elementi dottrinali ma bensì dagli effetti che la propria identità produce. È in fondo ciò che Benedetto XVI ha recentemente affermato: «un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari».

In ultima istanza la questione della pace interroga la natura stessa della razionalità: solo se la ragione si riconosce come non-propria, come generata essa stessa da una verità che la precede, da un’alterità che abita la soggettività stessa, allora essa sarà capace di fare spazio al diverso, riconoscendo all’opera in lui la medesima dinamica.