Veniamo da settimane in cui l’attenzione dei media, e di conseguenza quella dell’opinione pubblica, si è focalizzata sui comportamenti pubblici e privati del Presidente del Consiglio. Con esperto tempismo, qualche giorno fa il Censis ha presentato un’indagine sulla deregulation dei comportamenti in Italia. La notizia è stata sintetizzata con un accattivante: «la trasgressione non fa più scandalo». Forti dell’autorevolezza che abitualmente attribuiamo ai numeri e alle percentuali, diversi cronisti e conduttori sono tornati al dibattito sulla moralità del popolo italiano e di chi lo rappresenta nelle istituzioni.



Al di là delle frasi ad effetto e del particolare momento in cui sono diffusi, i dati non ci dicono nulla di nuovo. Si limitano a “quantificare” una realtà che è sotto gli occhi di tutti. Il Censis ci notifica che viviamo in una società in cui ciascuno cerca l’affermazione di sé, della propria personalità, a qualsiasi costo. Quasi un terzo dei giovani intervistati, ritiene che la società identifica il successo nel diventare ricchi e famosi; mentre a loro giudizio esso consisterebbe nel realizzare le proprie aspirazioni (38%), nell’aiutare gli altri (26,1%), oppure nell’essere se stessi (25,4%). Intransigenti nel condannare chi utilizza strumenti illeciti per dare la scalata al successo nella sfera dei comportamenti pubblici, i giovani risulterebbero, invece, molto più possibilisti nella sfera privata. Tanto che per molti di loro il consumo di alcol, soprattutto nel fine settimana, e quello di cocaina sono divenute le “piste” da battere per essere finalmente se stessi. La conclusione del Censis è che siamo giunti alla fine di un ciclo destinato a «sfarinarsi con il tempo», nell’attesa di assistere ad «un ritorno alla coscienza del noi contro l’affermazione della mucillaggine dell’io».



Della nutrita schiera di neo-moralizzatori della vita pubblica, inquinata da questo agente infestante, fanno parte anche coloro che all’epoca della «mutazione antropologica» – così Pasolini definiva il cambiamento omologante, avvenuto in Italia tra gli anni ‘60 e ‘70 – criticavano il sistema capitalistico in nome del primato dell’essere sull’avere. Oggi che la libertà di essere se stessi, l’affermazione della propria soggettività è il faro che guida i comportamenti di larga parte della società, ancora non sono soddisfatti e si augurano un «ritorno della coscienza del noi». Curiosamente, i giovani di quegli anni vivevano per un’ideale di cambiamento, i loro figli sono diventati i guardiani della pubblica morale. Allora, il “Palazzo” era sinonimo di un potere ostile alle proprie istanze di realizzazione; ai nostri giorni, invece, al grido di «il privato è privato» si realizzerebbe il rispecchiamento con i potenti di turno.



Non sono d’accordo con questa interpretazione e intendo spezzare una lancia a favore dell’imputato: l’io. Assumendo un’interpretazione pregiudizialmente negativa nei confronti dell’essere se stessi corriamo il rischio di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Insomma, ben vengano coloro che desiderano realizzare le loro aspirazioni, e che desiderano essere se stessi. Non credo che si possa liquidare il desiderio di essere noi stessi come una mera manifestazione retorica. Retorici, semmai, sono i significati culturali attribuiti alla parola libertà e all’essere se stessi. Essi hanno favorito la diffusione delle tanto vituperate pratiche sociali che connotano l’io mucillagginoso.

Ad esempio, nel senso comune siamo usi a identificare il significato della parola “libertà” come l’assenza di dipendenza. I rapporti con gli altri sono percepiti in maniera ambivalente: da un lato sono necessari alla nostra realizzazione, ma al tempo stesso possono ostacolarla. Le relazioni sociali sono quindi una sorta di Dott. Jekyll e Mr. Hyde, da gestire con cura. Nel suo pamphlet su Il matrimonio moderno, Karen Blixen aveva lucidamente indicato i motivi per cui le nostre relazioni, soprattutto quelle affettive, sono considerate a termine. Anche in questo tipo di legame che nasce con la promessa di sfidare il tempo, in realtà ci stiamo con un piede dentro ed uno fuori, sempre vigili e pronti a cogliere migliori opportunità di realizzazione del nostro io, che ci si possono schiudere stabilendo nuove relazioni. Una seconda possibilità, complementare alla prima ce la offre il mare magnum delle relazioni virtuali, ad esempio Facebook. In tali relazioni possiamo entrare e uscire a nostro piacimento. Anche qui, con il rischio di “naufragare”.

Per lungo tempo abbiamo confidato in una logica di funzionamento del sistema sociale che prima favorisce e sollecita l’espansione delle liberta individuali; poi, spaventati dalle conseguenze che l’esercizio di tali libertà produce, invochiamo la mano dura. La vera alternativa consiste nel vivere un’appartenenza sociale che solleciti continuamente la nostra libertà a ricercare ciò che risponde pienamente alla domanda di senso che pervade, più o meno consapevolmente, le nostre azioni. In tutta cordialità, e umiltà, mi azzardo io ad indicare una strada: quella che conduce in Piazza S. Egidio 5, a Roma, dove si affaccia la Trattoria de “Gli Amici”. Una trattoria in cui lavorano fianco a fianco, giovani, adulti e persone con disabilità mentali, e a cui collaborano numerosi volontari, alcuni dei quali ricoprono incarichi di rilievo nelle istituzioni. Sociologicamente potrebbero rientrare in quel 26% di intervistati che identificano il successo con il fare qualcosa per gli altri. Osservando i volti di quelle persone – alcune delle quali in passato erano state giudicate “pericolose” – e l’alacrità con cui ciascuno svolgeva il proprio compito, mi sono accorto che quella realtà, come tante altre analoghe di cui è punteggiato il nostro Paese, era un successo (anche dal punto di vista economico). In quel luogo, con quegli amici, ognuno di loro era profondamente libero di essere se stesso. Quel luogo, io non lo conoscevo. Magari, all’estensore dell’indagine Censis, da cui hanno preso le mosse queste considerazioni, era già noto. In ogni caso, è lì che mi piacerebbe invitarlo a cena. L’argine alla mucillaggine dell’io già c’è, e passa anche per questa trattoria.