Ancora alla fine del Settecento, Goethe esalta lo splendore del sole alto nel cielo come un canto trionfale: «Il sole risuona, secondo il modo antico / nella gara canora delle sorelle sfere…». Nei versi del Faust, sotto la patina di un linguaggio fedele alla tradizione, si sente affiorare la forza di una rappresentazione ancora “arcaica” del mondo, trasfigurata dal simbolismo della poesia. È la stessa che ancora oggi spinge a parlare dello spettacolo del cielo stellato come di un “concerto di stelle”. Sono metafore che si stagliano tutte su uno sfondo musicale animato, brulicante di vita e di movimento. Persino l’universo fisico dei grandi corpi celesti, che disegnano i loro movimenti circolari nello spazio concavo del cosmo, veniva ancora immaginato, nel solco di una scienza enciclopedica ereditata dal Medioevo e dalla cultura della prima Età Moderna, da Dante fino a Marino, a Gracián, a Daniello Bartoli, al Paradiso perduto di Milton, come l’incastro di rotazioni collegate fra loro in modo mirabile, nel quadro di una regia amorosamente attenta al minimo dettaglio, che non lasciava nulla al caso, capace di far sprigionare, dal gioco armonioso di tutte le parti separate da intervalli e gradazioni di misure distribuite con millimetrica precisione, l’armonia di una incessante, sovrasensibile melodia. La musica “artificiale” inventata dall’uomo era solo un pallido riflesso di questa “musica mondana” diffusa in ogni angolo dell’universo. Se la terra stava classicamente al centro della “macchina” gigantesca tenuta in perenne movimento dall’energia affettiva del volersi immedesimare con la perfezione di Dio che l’avvolgeva da ogni lato, sette erano le sfere dei pianeti che la fisica antica aveva individuato nella volta celeste, ruotanti l’una dentro l’altra, scendendo a cascata fino al nucleo più interno del globo su cui l’uomo aveva visto collocata la sua esistenza. Ma le distanze fra i pianeti si disponevano secondo uno schema che ricalcava l’alternanza dei toni e dei semitoni delle note musicali, e sette erano infatti le note su cui si basava, in modo perfettamente speculare, la scala dell’arte musicale portata al culmine della sua elaborazione nell’Occidente cristiano, dopo la fine dell’antichità greco-latina.



Si intuisce subito che questa suggestiva immagine organica del mondo creato ha dominato fin dai suoi inizi più remoti il percorso della tradizione culturale di cui siamo figli. E ha continuato a segnarne la fisionomia anche quando le radici primordiali che l’avevano nutrita e la sua anima religiosa di fondo sono state dimenticate, alla fine contestate e sfigurate. Per Dante e per i poeti barocchi, dietro la bellezza affascinante del simbolo poetico si imponeva la realtà corposa del mondo, così come poteva essere letta dal punto di vista dell’uomo chiamato a governarla nel suo cammino verso il destino eterno. Noi moderni abbiamo capito che quell’immagine sentimentale afferrava solo una parte limitata della realtà esistente. Abbiamo dovuto correggerla, integrandola con le misurazioni matematiche e le osservazioni sperimentali che hanno fatto emergere lati prima irriconoscibili della struttura del cosmo che ci ospita. Ma anche dopo che la rivoluzione astronomica dell’età moderna ha portato a compimento la sua marcia vittoriosa, spodestando la rappresentazione prima condivisa del mondo della natura, i princìpi costitutivi dell’immagine che noi abbiamo “scartato” per poter progredire hanno continuato a far sentire la loro influenza.



Di tutto questo, e di molto altro ancora, discorre in modo limpidamente autorevole il classico saggio di Leo Spitzer, tradotto in italiano con il titolo L’armonia del mondo. Storia semantica di un’idea, recentemente riproposto in una nuova edizione. Il punto più geniale dell’affresco delineato dal grande maestro è l’aver chiarito quale era il fondamento della visione “armonistica” dell’universo tradizionale. L’armonia si fondava sulla corrispondenza delle parti molteplici dentro la cornice del tutto che le riabbracciava. L’unità era la sintesi del pluralismo esasperato del diverso che, invece di esplodere nella guerra rovinosa della dispersione (della realtà singolare contro l’economia ordinata dell’insieme), accettava di convergere nella grande scuola dell’obbedienza e dell’intreccio vicendevole, dai livelli più ciechi e istintivi della realtà materiale delle cose fisiche salendo fino ai piani più nobili ed elevati delle libertà in contrasto degli attori umani, della vita dello spirito, della sfrenata differenziazione gerarchica dei cori (musicalmente festanti in cielo!) delle creature angeliche e del mondo dei beati. È proprio qui che salta di nuovo in primo piano la radice musicale della metafora dell’armonia della natura creata. La musica più bella non è una nenia monocorde; è essa stessa una sinfonia sapientemente orchestrata di suoni e di voci che si combinano in una alchimia fondata sull’incastro delle diversità. Spitzer trascina fino ad altezze vertiginose quando per esempio ricostruisce la genesi seicentesca della nostra idea moderna (oggi pressoché totalmente laicizzata) di “concerto” musicale. Ma l’unità dell’effetto esteticamente armonioso non deve far dimenticare che, dietro la storia materiale dell’elaborazione della parola, ci sta tutto il peso dell’accordo da stabilire tra strumenti diversificati e per natura fra loro “discordanti”, se lasciati all’indisciplina del loro estro isolato. Dentro il “concerto”, stanno la “tensione” da mantenere in equilibrio e la “corrispondenza” da far vibrare tra i due, o i più, che solo fondendosi creano l’unità di una cosa sola. Tutta la metafora del corpo biologico che percorre l’ecclesiologia neotestamentaria e della teologia patristica si è nutrita della stessa linfa culturale: l’unità come sintesi del diverso, che non annulla la specificità delle parti componenti, ma le piega verso l’unisono di un concerto pluralistico. Quando Spitzer conduce a perlustrare la genesi del canto liturgico ambrosiano, differenziandolo dalla linea religiosa più rigidamente agostiniana. O quando discorre del lento decollo della polifonia, dell’ingresso prepotente della rima nella tradizione poetica della cultura cristiana, dopo la dissoluzione della metrica classica basata sulla quantità: ogni volta viene spalancata una finestra luminosa sulle tendenze sotterranee che hanno plasmato l’identità di fondo della cultura dell’Occidente mediterraneo e poi europeo.



Sul piano più strettamente storico, due mi sembrano i lasciti più preziosi tramandataci da Spitzer, in un libro che è stato definito «un monumento alla memoria dell’uomo e al suo ideale di dottrina, una stupenda presentazione dell’armonia del mondo intesa come un credo». Su tutto sovrasta l’idea della genesi insieme classica e cristiana di questa immagine del mondo che la Commedia di Dante ha rivestito di una forma poetica immortale. Come Virgilio è stato per lui il padre benedetto, così i materiali di base dell’uni-diversità del tutto fondato sull’armonia dinamica delle parti sono stati forgiati dalla classicità greca e latina. Ma la sapienza etico-religiosa e la filosofia degli antichi sono state assunte dal cristianesimo fin dal suo primo apparire, che le ha bilanciate con la teologia della sua fede e le ha rese patrimonio fecondo su cui costruire sempre nuovi discorsi sull’uomo e il suo destino. L’armonia di una verità “sinfonica” si è coniugata con lo sguardo positivo che la cultura cristiana ha gettato sulla realtà del mondo da salvare. E Spitzer aggiunge con vigore che di questa cultura l’“armonia del mondo” ha accompagnato lo sviluppo fino alla grande crisi maturata solo quando la coscienza di fondo della cristianità europea ha cominciato a cedere alla pressione di una modernità che voleva andare per la propria strada, troncando il cordone che la teneva agganciata alla sua origine. Anche per Spitzer, come per gran parte della cultura umanistica più avanzata del nostro tempo, la vera linea di frattura si colloca fra Sei e Settecento. Prevale l’ideale di una lunga continuità creativa della cultura classico-cristiana della grande tradizione occidentale. Per lui – e la tesi vale come una provocazione stimolante, su cui continuare a discutere – Medioevo, Rinascimento e Barocco sono solo le tre fasi distinte di un unico ciclo unitario della storia culturale della Cristianità.