Le encicliche scandiscono il fluire della vita cristiana. I Papi le scrivono per esporre e definire quelle verità che ritengono eloquenti per la propria epoca. O per interpretare i segni dei tempi alla luce del contenuto della fede. Sono un affare interno alla Chiesa cattolica, ma la loro eco risuona nel mondo. Accade soprattutto per le encicliche sociali. Trattano in maniera specifica dei rapporti tra le istituzioni, gli uomini e le strutture del loro vivere; sono indirizzate – come le altre – ai vescovi e ai fedeli, ma per loro natura coinvolgono l’intera collettività. I politici, gli economisti e gli intellettuali contestano o accettano i principi contenuti in esse, ma difficilmente ne prescindono totalmente. Sarà così per l’ultima enciclica di Benedetto XVI, della quale si stanno già osservando significative conseguenze e il nascere di un dibattito globale. Fu così per la prima enciclica sociale, la Rerum Novarum, scritta da Leone XIII nel 1891 per affrontare il problema operaio. Di questa Alberto Cova, professore ordinario di Storia Economica nell’Università Cattolica di Milano, dove è stato preside della facoltà di Economia dal ’92 al 2008, ci illustra i concetti principali e la novità che rappresentò per quel momento storico.
La politica esiste da ben prima del 1891. Solo allora, però, un Papa decise di dedicarle interamente un’enciclica. Perché?
Perché in questo periodo – quando l’industrializzazione è ormai in fase avanzata – le classi sociali più deboli, gli operai e i contadini, sono coinvolte in un processo di emarginazione mai visto prima. Si accentuano le difficoltà, si esasperano le differenze economiche, si trasformano i rapporti sociali. E Leone XIII è molto sensibile nei confronti dell’inedita situazione; era stato, infatti, nunzio in Belgio, dove era entrato in contatto con la vita degli operai delle grandi imprese carbo-siderurgiche e delle miniere. E per questo, nel 91, ritiene che la Chiesa debba pronunciarsi e prendere le contromosse di fronte al degrado umano generato dall’era industriale.
Non avrà pesato anche il ricordo della ferita di Porta Pia, ancora fresco, e che la Chiesa si trovasse – dopo secoli – a non poter più incidere direttamente sulle vicende politiche?
Certo, nel ’91, il potere temporale è finito. Ma bisogna ricordare che il destinatario dell’enciclica era il mondo intero, non la sola Italia o lo Stato Pontificio. Il fatto è che la nuova condizione operaia non poteva essere affrontata con i vecchi strumenti di solidarietà – come le corporazioni medievali – né con le precedenti categorie intellettuali. Bisognava dare una risposta nuova a problemi nuovi.
Che risposta diede Leone XIII?
Secondo il Pontefice l’ambiente lavorativo riduceva l’operaio ad un mero mezzo di produzione, un fattore dell’ingranaggio pagato a livello di sussistenza per la prestazione che erogava all’interno di un modello organizzativo. La miseria e lo sfruttamento privavano i lavoratori delle qualità di soggetti e i rapporti interni all’ordine produttivo erano disumani. Dalle fabbriche era estromessa l’esperienza personale.
Non sembra un pensiero particolarmente originale
Certo, questa era la critica “in voga” all’epoca. Ma Leone XIII innova sul piano della proposta: il marxismo rispondeva con una soluzione radicale, da attuarsi con il divampare del conflitto e con la rivoluzione come i soli strumenti di rivalsa sociale. Per il Papa, invece, tra imprenditore e lavoratore doveva instaurarsi un rapporto di cooperazione nel quale far emergere la dignità della persona.
Attraverso le coordinate tradizionali del Cristianesimo – la specificità dell’uomo come persona, la carità, l’amore per il prossimo – l’enciclica ricordava che l’operaio è sì un fattore della produzione, ma con valori, speranze, una famiglia. Per questo il salario doveva tenere conto delle sue specificità, della necessità di un’esistenza decorosa o dell’istruzione dei figli. Gli orari e il lavoro effettivo, poi, dovevano essere il più sopportabili possibile.
E se il padrone non era d’accordo?
Il mondo operaio stava abbozzando una risposta collettiva al cambiamento. Nella grandi città industriali nascevano le cooperative di lavoro le società di mutuo soccorso. Il Papa suggeriva una forma aggregativa di questo genere. I Cattolici, dal canto loro, diedero vita alle leghe del lavoro bianche, come del resto i socialisti a quelle rosse.
Non era più semplice iscriversi al sindacato?
Il sindacato – che allora esisteva in fase embrionale ed era tutt’altro che una realtà ben definita – presupponeva l’esistenza di due soggetti in conflitto, tra i quali tendeva a sottolineare l’inconciliabilità. In Inghilterra, inoltre, chi se ne occupava era mandato in Australia, nelle colonie penali e in Francia era vietato dalla legge.
Quali furono gli effetti pratici più visibili prodotti dalla Rerum Novarum?
Basti pensare all’impulso che diede alla diffusione delle casse rurali e delle banche cooperative. Il mondo contadino con le sue piccole aziende aveva bisogno di sostegno. Chi possedeva un fazzoletto di terra, apportando innovazioni tecnologiche avrebbe potuto dar vita a una cultura specializzata che gli avrebbe permesso di guadagnare di più. Ma le banche non concedevano prestiti. Allora il credito venne istituito sul piano locale, a livello comunale. Se guardiamo le statistiche, scopriamo che nel 1922 in Italia ci sono ormai più di 3000 casse rurali, l’80 per cento delle quali cattoliche. La maggior parte di queste fondata da preti che avevano recepito gli insegnamenti del Papa. Tra gli anni ‘80 e ’90, poi, vi fu l’impennata della migrazione interna, e per la volta ci furono spostamenti massicci di ragazze. Grazie ai convitti per fanciulle, costituiti dalle chiese locali accanto alla fabbriche, le donne erano tolte dai pericoli della vita solitaria, lontano da casa, ricevevano un pasto caldo e spesso un’istruzione.
In che misura l’enciclica ha influito sulla successiva elaborazione della dottrina sociale?
Sul piano del contenuto, ogni enciclica sociale è diversa dalla altre. In comune rimangono le coordinate fondamentali. Ma la Rerum Novarum ha sicuramente influito dal punto di vista del metodo: il Pontefice ha un problema da risolvere, osserva la realtà, e si adopera per far crescere quel segmento della società che è in condizioni disagiate.
In molti rinfacciano alla Chiesa di essere arrivata in ritardo rispetto al marxismo, a proposito delle rivendicazioni della classe operaia e degli strati sociali più deboli. È così?
Se uno adopera lo strumento del forcone sì. È facile predicare la rivoluzione. Se uno invece usa il cervello, capisce che la Chiesa non si prese nient’altro che il tempo necessario per elaborare una risposta ufficiale, che fosse il più ragionevole e utile possibile.
(Intervista raccolta da Paolo Nessi)