Trent’anni fa, nell’estate del 1979, l’Italia inviò tre navi della Marina Militare in Vietnam a soccorso dei boat people che fuggivano in migliaia dal regime comunista su imbarcazioni improvvisate (vedi il sussidiario del 17 luglio). Tra le navi c’era la Vittorio Veneto, che era allora la nave ammiraglia e il più moderno vascello della nostra flotta. Abbiamo intervistato l’Ammiraglio di Squadra Franco Mariotti, allora Capitano di Vascello e comandante del Vittorio Veneto; uno dei protagonisti principali della missione in Vietnam.



Ammiraglio, con quali sentimenti accolse l’ordine di partire per questa missione così diversa dai compiti normali della Marina in quegli anni e così lontano dall’Italia. Lei e i suoi equipaggi, vi sentivate pronti?

L’ordine di svolgere questa missione fu accolto dagli equipaggi, dai Comandanti ai più giovani marinai, con vivo entusiasmo: il pensiero di andare a salvare tante vite umane fu l’elemento motivante di maggior importanza. Le navi erano in buone condizioni di efficienza e ci sentivamo pronti a svolgere bene la missione, pur senza sottovalutare le difficoltà e le incognite di un compito così delicato, di durata non breve e in acque così lontane. A tutti i livelli fu posto un impegno deciso, ben assecondato dagli Enti centrali della Marina, per organizzare in pochi giorni quanto necessario per curare, nutrire, vestire, ospitare per molti giorni su navi da guerra, non disegnate per tali compiti, un elevato numero di uomini, donne e bambini che raddoppiava il numero delle persone normalmente imbarcate. Molta cura fu dedicata a individuare il tipo e la consistenza degli approvvigionamenti necessari ed a verificare le prestazioni dei servizi logistici (cucine, distillatori acqua potabile, condizionatori, infermerie, etc.) sottoposti ad uno sforzo ben superiore a quello normale. Anche le prestazioni del sistema di combattimento furono controllate. Quando lasciammo Taranto, eravamo consapevoli di essere all’altezza del compito.



Quali sono gli episodi che La colpirono di più durante le settimane di missione nelle acque antistanti il Vietnam?

Gli episodi che più mi hanno colpito furono, ovviamente, i vari ritrovamenti di imbarcazioni stracolme di profughi in precarie condizioni. La consapevolezza di aver evitato a tante persone un tragico destino ripagò abbondantemente il nostro impegno e i nostri sforzi. Altra immagine viva nel mio ricordo è la felicità dei bambini che giocavano sereni con i giocattoli che avevamo acquistato per loro nella breve sosta a Singapore.

Come avevate organizzato la vita sulle navi con tanti civili a bordo, come si svolgeva la vita quotidiana dei marinai e dei profughi?



Ai civili era stata assegnata sul Veneto la parete poppiera del grande hangar degli elicotteri. Nella parte prodiera dell’hangar erano sistemati i tre elicotteri che furono determinanti per individuare e identificare le barche dei profughi fra i tanti pescherecci operanti in zona. La separazione con l’equipaggio era netta, non solo per motivi di opportunità, ma soprattutto per motivi igienico-sanitari allo scopo di evitare contagi di malattie infettive. I profughi erano adeguatamente assistiti da un team di persone dei servizi logistico-sanitari, con interprete. Nell’hangar disponevano di letti a castello, ben attrezzati per evitare cadute in condizioni di mare agitato, e potevano accedere alla zona poppiera della nave dove avevamo allestito in pochi giorni, prima di partire, docce e servizi igienici. In assenza di operazioni di volo i profughi potevano stare anche sull’ampio ponte di volo, dove furono organizzate attività ricreative. Il vitto all’italiana era molto gradito, anche se il riso, a detta loro, non era ben cotto all’orientale, e fu sostituito dalla pasta.

 

Sappiamo che in quegli anni nessun altro Stato si occupava concretamente della situazione dei “boat people”. Lei ritiene che la missione in Vietnam fu davvero importante per l’immagine internazionale del nostro Paese?

La missione ottenne, a mio parere, due importanti risultati.

Il primo fu di richiamare l’attenzione generale sul dramma dei boat people. Dopo l’esempio dato dall’Italia, altre marine militari, e in particolare la VII Flotta USA, inviarono navi e molti altri profughi furono salvati.

Il secondo fu un incremento del prestigio internazionale dell’Italia, per aver deciso e svolto con successo una missione dal così alto valore umanitario. Il fatto che la missione fu eseguita senza il minimo incidente o contrattempo, come fu testimoniato dai numerosi giornalisti presenti a bordo, rafforzò la considerazione degli Italiani per la propria Marina Militare.

(intervista raccolta da Francesco Vignaroli)