Gli antichi Romani non amavano molto la filosofia, la ritenevano un’occupazione inutile, quando non dannosa. Ma Lucrezio, uno dei loro massimi poeti, tradusse in un vasto poema il pensiero di Epicuro. La sua opera parla di lui come di un uomo che ebbe dallo studio della natura momenti di ebbrezza, ma non la felicità promessa. Egli soffre e conosce lucidamente la ragione del suo male, l’inspiegabile amarezza dell’inquietudine che afferra alla gola proprio in mezzo al piacere: medio de fonte leporum / surgit amari aliquid quod in ipsis floribus angat



In tutta la sua opera l’ammirazione sconfinata per la vastità del cosmo nel quale le cose si muovono incessantemente si intreccia con la percezione del limite. Il moto degli atomi che dà agli elementi della natura origine, consistenza e ordine ne spiega anche la decadenza e la morte; l’entusiasmo per l’indagine della ragione umana capace di strappare alla natura le sue leggi sfocia nella constatazione realista che tutto deperisce e si avvia verso la tomba. Proprio questo l’uomo teme sopra ogni cosa, la fine.



Lucrezio si propone di mostrare come solo la scienza sia in grado di sconfiggere questa paura, rivelando come stiano in realtà le cose. Occupazione importante, non certo gioco intellettuale, perché è in causa l’eternità, non un’ora sola: temporis aeterni quondam, non unius horae,/ ambigitur status. Occupazione coraggiosa, perché se è vero che nelle avversità si rivela di che pasta è fatto un uomo, occorre essere forti quando eripitur persona, manet res, strappata la maschera dell’apparenza e dell’illusione, rimane la cruda realtà.

La felicità è per Lucrezio il frutto di un’incessante battaglia contro l’ignoranza e il dolore, conquista conoscitiva ed etica insieme. Il saggio deve esercitare il distacco dalla passione degli eventi che passano per immergersi nel lavoro che gli è proprio, quello di lasciare che le cose rivelino il loro segreto. In una età in cui le enormi conquiste territoriali mettono in crisi le antiche istituzioni repubblicane, il poeta non si sottrae alla lotta che impegna il popolo romano con tutte le sue risorse. Lucrezio, come insegna Bergson nelle sue giovanili lezioni di latino, contribuisce allo sforzo comune, indicando nella ragione il farmaco che guarisca la paura della morte da cui nascono l’avidità della ricchezza, la brama degli onori, l’ambizione del potere, il disprezzo della sobrietà, la soppressione degli avversari.



Tutta la nostra vita si dibatte nell’oscurità: simili ai bambini che tremano e si impauriscono di tutto nelle tenebre cieche, noi, in piena luce, spesso temiamo pericoli tanto poco terribili quanto quelli che l’immaginazione teme e crede di vedere avvicinarsi. Questi terrori, queste tenebre dello spirito, li devono dissipare non i raggi del sole né i dardi luminosi del giorno, ma lo studio e la comprensione della natura.

Se questo sia sufficiente, ognuno lo può stabilire in base alla propria esperienza di sé e del mondo. Resta il fatto che in quel suo tempo ormai privo di dei e non ancora visitato da Dio, la sua proposta isolata e sofferta giunge come un correttivo e un avvertimento. Dopo l’opera di Lucrezio i Romani per la prima volta riconoscono al pensare una dignità pari a quella di altre opere più appariscenti.