Carlo Betocchi, uno dei maggiori poeti italiani del Novecento, nato nel 1899 e morto nel 1986, non è tra le figure più note al grande pubblico. La sua produzione si distingue dal gusto dannunziano della sua giovinezza, come dal posteriore sperimentalismo di altri autori più conosciuti. La sua è una poesia semplice, di poveri: il che non gli impedisce di essere amico di uomini come Caproni, Bo e Luzi. La sua opera forse più sconosciuta è la traduzione delle poesie di santa Teresa del Bambino Gesù, dove egli scompare per rendere in lasse prosastiche le rime della giovane carmelitana. Betocchi completa questo lavoro nel 1968 e in una nota rintraccia nella concretezza e nella lucidità tutta francese i caratteri delle poesie della santa, paragonandole, insieme a quelle di san Francesco e di san Giovanni della Croce, a comete che si distinguono dalle altre stelle, che se ne vanno per conto loro, per strani sentieri e a un più remoto fine, non perfettamente classificabile.
Betocchi non è un santo, ma appartiene, credo, a quel genere di uomini schivi e forse rudi, che vivono la vita di tutti guardandola nel profondo, con molto silenzio: poeti che già Ennio, il padre delle lettere latine, chiamava santi.
La poesia scelta, tra le tante che si vorrebbe far conoscere, è tratta da una raccolta del 1963-1964, intitolata Un passo, un altro passo. Betocchi è anziano, ma vivrà ancora a lungo. Egli qui però si definisce vecchio e chiede di essere ascoltato nel suo silenzioso ritiro. Come deve essere bello poter dire nella maturità dei sessant’anni compiuti, quando la terra non dà più fiori e foglie, ma spine, che la vita «respira senza acredine». E non in forza di un distacco che gli anni facilitano, ma che può anche avere il sapore del rimpianto, della delusione, del lamento. È un uomo assorto quello che chiede di essere ascoltato. Non ripiegato in se stesso, perché egli parla di una ricchezza permanente, che trae la propria forza dall’inspiegabile esistenza di un amore nascosto e dalla relazione misteriosa con lo Spirito che regge il creato e le sue leggi.
Chiede di essere ascoltato quest’uomo, perché non dimentica. Oppure non è dimenticato? Non sono evidenti nel testo tutte le funzioni logiche e ciò lascia spazio più largo alla lettura. Egli ascolta nella sua vita stentata il canto dell’amore che non viene da lui e vuole farlo udire. Perciò tace, come le pietre. Ma le pietre hanno molto da dire a chi le sa ascoltare.
Non ho più che lo stento di una vita
che sta passando, e perduto il suo fiore
mette spine e non foglie, e a malapena
respira. Eppure, senza acredine.
C’è quell’amore nascosto in me,
quanto più miserevole pudico,
quel sentore di terra, che resiste,
come nei campi spogli: una ricchezza
creata, non mia, inestinguibile.
Nemmeno più coltivabile, forse, ma vera
esistenza; così come pare sperduta
nel cosmo, con la sua gravità, le sue leggi,
il suo magnetismo morente, che lo Spirito
non dimentica, anzi numera.
Non guardatemi, che son vecchio,
ma nel mio mutismo pietroso ascoltate
come gorgheggia, com’è fiero l’amore.