La vicenda dell’ispanico Lorenzo, diacono di Sisto II, la conoscono tutti, così come il sarcasmo con cui invitò il carnefice a rivoltarlo sulla graticola, ché da un lato era già cotto. Il magistrato che, dopo aver martirizzato nel 258 il papa, gli chiese di consegnare i “tesori” della Chiesa si vide indicare i poveri, beneficando i quali la Chiesa accumulava “tesori” nei cieli. Grande senso dell’humour, dunque, in Lorenzo. Ma, in effetti, un «tesoro» materiale l’aveva davvero messo al sicuro. Il Graal.



Legioni di fissati lo cercano da secoli e continuano ancora a cercarlo, a beneficio di tutti i romanzieri alla Dan Brown. Ma, com’è noto, non c’è nulla di più nascosto di ciò che sta sotto gli occhi di tutti. Il Graal esiste e si trova nella cattedrale di Valencia, in Spagna. E’ la vera coppa con cui Cristo celebrò l’Ultima Cena e trasformò il vino nel suo sangue. In Spagna la portò proprio Lorenzo, che era di Huesca, su incarico del papa. Fino a Sisto II tutti i papi, a cominciare da s. Pietro, avevano celebrato con quella coppa. Pietro l’aveva portata con sé prima ad Antiochia e poi a Roma. Le parole con cui consacrava («…prese questo calice…») erano da intendersi in senso letterale. Quando le cose si misero male, quel calice finì in Spagna.



Peregrinò poi per vari luoghi della penisola iberica, prima per sottrarsi ai Vandali, che erano ariani, e poi agli invasori musulmani. Nel corso della Reconquista cristiana finì a Saragozza, lì portato dal re aragonese Martín I. Ci rimase fino al 1424, anno in cui un altro re, Alfonso il Magnanimo, lo donò alla città di Valencia per l’aiuto fornito nelle campagne contro i mori. Ventidue papi, fino a Sisto II, lo hanno usato.

La tradizione è ripresa con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Il Graal, checché ne dica Indiana Jones, è fatto di agata, oggi impreziosito con inserti d’oro. Gli esperti che lo hanno esaminato dicono trattarsi effettivamente di un oggetto d’artigianato siriano in uso in Palestina fin dal I secolo a. C.