Tra qualche settimana saremo chiamati a celebrare i vent’anni dalla caduta della Cortina di ferro che ha separato per quattro decenni l’Europa in due blocchi contrapposti e il cui simbolo fu il Muro di Berlino. È facile prevedere che le cerimonie commemorative e il dibattito pubblico saranno dominati dalla retorica dei diritti umani, la religione civile dei nostri tempi. Il ricordo e l’onore dovuto ai protagonisti della resistenza anti-totalitaria, assieme alla professione di qualche piccolo mea culpa da parte dei rappresentanti dei governi occidentali, genereranno verisimilmente una diffusa buona coscienza soddisfatta di sé. È questo purtroppo l’esito di tante commemorazioni civili.
Il peggio sarà che questa kermesse impedirà ai più di interrogarsi sull’eredità del fenomeno che fu il cuore della resistenza anti-totalitaria, il cosiddetto “dissenso”, di cui nel mondo odierno, anche nei paesi ex-comunisti, si sa ben poco.
Il dissenso nacque negli anni ‘60 dello scorso secolo sulla base di istanze e rivendicazioni innanzitutto di tipo morale. Non diversamente da ciò che avveniva nel mondo libero occidentale, vi fu la diffusione, soprattutto tra i giovani, di una domanda di legittimità rivolta alle istituzioni e alle autorità politiche, religiose ed educative, la presa di coscienza che in una società qualcosa non funziona quando la legittimità è ridotta alla pura e semplice legalità, quando ogni istituzione, al di là di ogni retorica, si concepisce meramente come espressione di una determinata prassi tecnica, quando ogni autorità diviene incapace di giustificare se stessa dal punto di vista di una idea di bene e di male, vale a dire di una visione dell’uomo.
Nel suo aspetto meno caduco il dissenso è stato un movimento di reazione alla crisi di senso, alla scontatezza e alla banalizzazione che colpiscono le istituzioni delle società moderne, le quali sembrano non corrispondere più alle esigenze e ai bisogni che emergono dal “mondo della vita”. Esigenze e bisogni non solo di tipo materiale ma anche culturale, come quello dell’identità di un popolo, cui dalla nascita dello Stato moderno si guarda con sospetto in quanto considerati forieri di conflitti che mettono a rischio la convivenza civile.
Questa dinamica unisce nel 1968 i Paesi europei di qua e di là dalla Cortina di ferro, ma la sua natura morale risulta più evidente nei paesi comunisti a causa della peculiare convessità dello specchio totalitario e trova la massima presa di coscienza – a mio parere – nella Cecoslovacchia comunista, in particolare all’interno di Charta ’77. Mentre tra il 1968 e il 1977 in Europa occidentale il “movimento” passa attraverso un’involuzione ideologica che lo porta da un lato verso una deriva violenta, se non terroristica, dall’altro verso un cinico “riflusso”, quel decennio serve ai dissidenti cechi e slovacchi per comprendere che coloro che si battono per un cambiamento radicale non possono accontentarsi di un cambiamento del regime politico.
Se il problema vero è la crisi di senso delle istituzioni, occorre allora rifondare la politica stessa, sottraendola al predominio della razionalità strumentale incapace di interrogarsi in merito ai propri fini, la quale non fa altro che potenziare la banalizzazione delle istituzioni sociali.
Ciò è ben compreso da personaggi quali Jan Patocka e Vaclav Havel, entrambi portavoce di Charta ’77, il primo morto nel 1977 in seguito alle percosse subite durante un interrogatorio della polizia politica, il secondo duramente perseguitato per anni dal regime prima di diventare il primo presidente della Repubblica cecoslovacca post-comunista. Si tratta di personaggi di levatura umana e culturale assoluta, in quanto non hanno solo sacrificato le loro vite per la causa della verità e della giustizia, ma hanno sviluppato una comprensione profondissima della natura del male politico che combattevano, al punto da essere capaci di identificare nel fenomeno della banalizzazione il problema che accomunava i regimi comunisti e quelli liberal-democratici.
Loro profonda convinzione fu che, per combattere tale male, occorreva sottrarsi alla logica della razionalità strumentale attraverso quella che Havel chiama “politica antipolitica”, la politica che si pone al servizio dei bisogni autentici che emergono dal mondo della vita, in primis quello di senso. E questa politica antipolitica non venne solo teorizzata, ma bensì anche in parte realizzata nella cosiddetta “polis parallela”, fatta di istituzioni principalmente educative e culturali che animavano il mondo del dissenso.
Per quanto ci riguarda, è difficile sostenere che oggi il fenomeno della banalizzazione non sia avanzato rispetto a vent’anni fa. La gente sente le istituzioni sempre più lontane dai propri bisogni materiali e culturali più autentici e ciò le delegittima. La politica è sempre più una questione da professionisti che si muovono molto spesso secondo una logica meramente strumentale. Allo stesso tempo, tuttavia, la sfera pubblica è spesso occupata da movimenti che, pur nascendo da bisogni autentici, li esprimono attraverso una logica identitaria di tipo ideologico.
Si tratta di due fenomeni che si sostengono reciprocamente: da un lato la neutralizzazione della sfera pubblica da ogni istanza di senso, richiesta dai professionisti della politica e da molti intellettuali in nome di una malintesa “laicità”, impedisce alle istanze di senso di entrare in dialogo con istanze analoghe e concorrenti, perdendo così il proprio carattere “integralista”; dall’altro lato la conseguente “fondamentalizzazione” di tali istanze rafforza il dispositivo di neutralizzazione e di banalizzazione.
Il compito di una politica capace di vedere nel mondo della vita una risorsa e non una minaccia, e la conseguente legittimazione delle istituzioni sociali, rimane tutt’oggi un compito da svolgere.