Simonide di Ceo, poeta greco del sesto secolo avanti Cristo dà voce all’angoscia di Danae, gettata in mare dal padre insieme al figlioletto avuto da Zeus, allo scopo di evitare una grave sciagura predetta da un vaticinio funesto.

La situazione appare disperata, la solitudine non può essere più totale e intorno infuria la tempesta. C’è una ultima risorsa, la preghiera. In questo caso la tenerezza per la sorte del bambino e la speranza che Zeus ascolti si fondono in un grido d’amore e di remissività.



Quando nell’arca finemente lavorata il soffiare del vento e l’agitarsi del mare la gettavano nel terrore, con le guance inondate di lacrime, ponendo la sua mano sopra Perseo in atto di protezione diceva: “O figlio, in quale difficoltà mi trovo; tu dormi il sonno tranquillo del bambino, adagiato in questa orribile cassa di legno dalle borchie di bronzo luccicanti nella nera notte, avvolto dall’oscurità violacea; non ti preoccupi dell’onda che si avventa spumeggiando sopra il tuo capo, né del fragore del vento e il tuo bel viso è coperto da un drappo purpureo. Se per te fosse terribile ciò che è terribile, tu presteresti ascolto alle mie parole. Dormi bambino, dorma il mare, dorma lo smisurato male; ma, se è possibile, un cambiamento venga da te, padre Zeus; se io ardisco pregare con una parola audace o che non conosce giustizia, tu perdonami”.



La prima impressione che si ha leggendo questo frammento è quella della prevalenza dell’acqua: al mare agitato da onde gonfiate dal vento corrispondono le lacrime di una madre disperata per la sorte del suo piccolo, che inconsapevole dorme. La seconda è una sensazione visiva: in mezzo alla notte nera brilla la luce un po’ sinistra delle borchie di bronzo dell’arca che protegge il bambino e il drappo che lo copre conserva il baluginare dell’oro da cui il color porpora è composto.

La natura urla tutt’intorno il suo furore; Danae sembra cantare una ninna nanna con il cuore chiuso dall’angoscia, perché la circonda non solo il mare in tempesta, ma tutto il male senza sponda incalza la sua vita e ciò che le resta di più caro.



Dall’impotenza in cui si trova a poter calmare la furia della natura, dall’amore per la vita di suo figlio, sale l’impossibile preghiera. Danae sa che non è lecito a lei misera chiedere che il fato cambi direzione. Il volere degli dei non è volubile come il vento, non è una barca che sia possibile governare. È una oscura ineluttabilità, a cui gli dei stessi sono talvolta sottoposti e che i mortali non possono sfidare, se non diventando empi.

Eppure l’amore supera il confine della giustizia. Danae chiede il miracolo del cambiamento, chiede quanto di più tragico possa essere chiesto in una cultura che non può concepire la bontà di un disegno maligno. Soprattutto chiede perdono della propria audacia e in questo tocca il vertice della religiosità greca. Un vertice che altrove Eschilo pone sulle labbra di un’altra donna amata da Zeus:

Bruciami pure nel fuoco, seppelliscimi sotto terra, dammi in pasto ai famelici mostri marini. Non togliermi, signore, la preghiera.