L’arte come avventura della conoscenza. Questo il titolo dell’incontro che il professor Robert Hollander, docente emerito di letteratura europea a Princeton ha tenuto presso il Meeting di Rimini. A ilsussidiario.net racconta la sua passione per Dante criticando la perdita di coscienza del valore espressivo della lingua e della letteratura nella società odierna



 

Professor Hollander, il tema del Meeting di quest’anno è “la conoscenza è sempre un avvenimento”, come commenta questa affermazione?

Dicendo che per Dante funziona proprio bene, perché, come ho detto in occasione del mio incontro tenuto qui al Meeting, ci sono quattro esempi di conoscenza usata in forma concettuale all’interno della Divina Commedia. La prima volta il termine “canoscenza” è utilizzato da Farinata degli Uberti, la seconda da Ulisse, e le altre due, prima da Beatrice e poi da Dante stesso. Nei primi due casi questo termine riguarda solo la conoscenza del mondo. Negli altri due quella di Dio. È una distinzione molto netta, molto chiara e importante. Alla luce di Dio per Dante ogni avvenimento ha un senso e quindi merita di essere conosciuto, una conoscenza legata quindi a una dimensione salvifica della realtà. Credo che nessuno abbia mai sottolineato questo aspetto che ritengo fondamentale per comprendere quello che Dante intendeva per conoscenza. E personalmente condivido questa visione. 



Molti pensano che la narrativa non sia fonte di vera e propria conoscenza in quanto le storie narrate sono frutto della fantasia umana e non di fatti avvenuti. Che nesso c’è fra letteratura e conoscenza?

In parte, ovviamente escludendo la conoscenza delle opere letterarie in sé, questa critica alla narrativa può avere anche qualche fondamento di verità. Escluderei totalmente da questa logica due poeti: Dante e Milton. Quest’ultimo ha scritto un meraviglioso poema, sebbene un po’ nel solco dell’invidia per il primo che lo aveva preceduto e di disprezzo per il suo cattolicesimo. Milton però ha un punto in comune con Dante, la verità. Mi spiego meglio: San Tommaso ha descritto la poesia come lusinghiera e piena di bugie, una sorta di gioco letterario. Dante ha sicuramente letto San Tommaso scoprendo in questo giudizio un impedimento. Poi durante l’elaborazione del Convivio decise non di disobbedire a San Tommaso, ma di capire quello che egli intendeva. Comprese che la poesia per essere bella doveva essere anche vera. E si è lanciato nell’idea della Divina Commedia che è narrata come cosa attuale, avvenuta e reale. Una decisione molto “pericolosa”, ma brillante. Direi che la storia ha coronato decisamente il successo di quest’opera.



Quali sono gli impedimenti che la modernità ha posto nei confronti della conoscenza?

Dopo l’ottocento il mondo dantesco, e più in generale l’interpretazione critica della letteratura, è cambiato radicalmente. Che cos’è successo? È stata recisa, eliminata, la dimensione religiosa dai testi presi in esame. Prendiamo ad esempio l’opera di De Sanctis: è un saggista meraviglioso, ma con Dante ha totalmente sbagliato le proprie analisi in quanto ha privato della dimensione religiosa l’interpretazione della Divina Commedia. Benedetto Croce ha fatto esattamente la stessa cosa.

Sono quindi interpretazioni in opposizione a una vera conoscenza di Dante?

Necessariamente in opposizione, poiché private del fattore religioso, forse senza una piena coscienza di essere in opposizione. Ma il danno è comunque fatto. Oggi in Italia Dante è considerato sì come un poeta religioso, ma in un senso riduttivo. La sua religiosità ortodossa non è più compresa. La lettura romantica dell’inferno dantesco, per esempio, lascia perplessi perché considera Francesca da Rimini come un’eroina, mentre per Dante, sebbene egli ne compatisca la sorte, rimane una donna in opposizione a Dio. Tornando invece a De Sanctis: egli ha scritto forse il suo più bel saggio con l’opera dedicata al Conte Ugolino. Un volume che si intitola “Il dramma della paternità”. A proposito di questo splendido saggio ho scritto un articolo nel quale sostengo che De Sanctis ha ragione nell’affermare che si tratti di un dramma della paternità, ma non specifica che è una paternità fallita. Per comprendere quanto affermo occorre rileggersi il Vangelo di Luca (11,11): «E chi è quel padre fra di voi che, se il figlio gli chiede un pane, gli dia una pietra?». Il Conte Ugolino è proprio l’esempio di un padre fallito in quanto privo di speranza, «sì dentro “impetrai”». Il termine usato contiene proprio la parola “pietra”, Ugolino è un padre impietrito.  

Una domanda sul versante “linguistico”: sono molti studiosi a sostenere la necessità ineluttabile che una lingua si trasformi. Ma sorge il sospetto che, vista la semplificazione incessante del modo di esprimersi, più che a una trasformazione storica si assista a una degenerazione culturale. È così?

Questa domanda mi tocca particolarmente perché rappresenta una crociata personale che sto conducendo da tutta la vita. Non è un caso che abbia scritto un volume il cui scopo è quello di rioffrire la grammatica a coloro che non la conoscono e dimostrar loro le infinite possibilità espressive legate al linguaggio. Qui in Europa non si ha un’idea del degrado culturale cui è sottoposta la lingua negli Stati Uniti. La nostra lingua è distrutta. Non si usano più le parole, ma si assiste a una costante regressione verso i gesti. Questo non è un positivo.

È una tendenza funzionale a qualche forma di potere?

Sì, in molti casi. Per esempio negli Usa c’è stato un momento in cui il linguaggio parlato dagli americani era insegnato a scuola perché risultava più “comodo”. Se questa fosse stata una tendenza fascista tutto il mondo l’avrebbe condannata, ma è stata astutamente sostenuta dalla gente di sinistra. Il problema è che cancellare la grammatica è l’azione più antidemocratica che esista perché impedisce la capacità di pensare. Io dico sempre che il momento in cui sono cresciuto è stato quando ho iniziato a studiare il latino.

In che senso?

Venni educato da insegnanti che si professavano di sinistra e dai quali era assolutamente impossibile apprendere la grammatica. Non sapevo a che cosa corrispondesse la parola “verbo”, ho appreso la sua funzione quando avevo 13 anni. Da allora decisi di studiarmi in solitario il latino e da quel moto di “ribellione” mi è nata la passione per la letteratura.

Anche qui in Europa, in tal senso, sta iniziando un declino che è molto difficile rovesciare.

«Libertà vo’ cercando» noi uomini siamo in cerca della libertà ma cercandola in questo modo, ossia assecondando un istinto come quello di semplificare il linguaggio, diventiamo schiavi.

Noi americani che abbiamo inventato l’educazione pubblica nell’ottocento l’abbiamo distrutta nel corso del novecento.

Vogliamo fare il nome di qualche “responsabile”?

Noam Chomsky che ha trasformato la grammatica nel paradosso di una scienza senza certezze. Chomsky stesso ha cambiato con la sua opera il modo di esprimersi e soprattutto di insegnare la letteratura e la lingua. Un sistema linguistico che deve essere “aggiustato” continuamente in tanti modi non è più un sistema, ma è la perdita di un linguaggio.