Nessuna comunità umana può esistere senza autorità e senza regole, senza una disciplina interna a cui si piegano gli istinti e gli interessi individuali. Questo vale per la cerchia naturale della famiglia così come per le comunità basate sulla residenza nel medesimo territorio, per le imprese collettive di lavoro, o per l’arena dei rapporti filtrati dagli scambi del mercato. Persino il traffico automobilistico impazzirebbe se segnali e divieti perdessero il significato univoco che devono avere per tutti coloro che transitano per le nostre strade, o se fermarsi al semaforo rosso cessasse di apparire una ragionevole prescrizione vincolante almeno per i guidatori sani di mente.



La cosa singolare è che, nella nostra mentalità contemporanea, i codici di regole che si strutturano con i loro apparati di sanzioni per chi le viola, invece di essere prima di tutto apprezzati per il loro valore di aiuto contro la confusione e il pericolo degli scontri, tendono a caricarsi dei lineamenti negativi di un’imposizione autoritaria, che avvolge con i suoi tentacoli una natura immaginata indocile e ribelle, compressa nella perduta spontaneità anarchica originaria. Proporre modelli da imitare, guidare i comportamenti, se necessario correggere o punire, diventano sinonimo di prevaricazione. L’autorità degenera in regime di polizia. Anche l’educatore e il maestro di vita cristiana, in un contesto culturale in cui si coltiva il mito dell’autonomia egualitaria degli individui, cominciano a dubitare di se stessi e diventano sempre più timorosi. Più che cercare di indicare una via, si interrogano su come entrare in dialogo per porsi umilmente al servizio; si camuffano sotto le più “democratiche” vesti dello psicologo a buon mercato, dell’animatore di gruppo, del buon fratello maggiore che rinuncia a far sentire la sua voce e non pretende più di avere dalla sua parte le semplici ragioni di una verità persuasiva per tutti.



Smarrita la certezza delle loro funzioni, dentro una società costruita come un grande corpo vivente – dove la testa che dirige si serve delle sue nervature di comando per coordinare gli arti che consentono di nutrirsi e di agire -, ciò che resta dell’antico primato dell’autorità e i frammenti della disciplina in cui si traduceva la sua forza regolatrice si trasformano in un inciampo, residuo ingombrante di un passato da spazzare via. I segni che rimandano al principio della dipendenza reciproca fra gli individui (pensiamo, ancora una volta, alla realtà elementare della famiglia) perdono di credito e si logorano. Se continuano a essere accolti, lo fanno portando a esaltare, in senso sempre più vistosamente unilaterale, quei tratti severi e costrittivi che, del resto, già erano contenuti nell’idea tradizionale di governo dei costumi, pubblici e privati. Ma quando se ne parlava, nella società del passato, si era molto più allenati di quanto non lo siamo noi oggi a convivere con il linguaggio delle prescrizioni chiare e stringenti, cui non si poteva affatto sfuggire con disinvoltura. Prevaleva una logica in base alla quale l’autorità e le sue norme si rivestivano di una riconosciuta utilità pratica al fine di modellare un sistema del vivere animato da un “galateo” intimamente cristianizzato, non formalistico né puramente puntellato dal timore, dove il rispetto degli usi consolidati e la venerazione dei padri erano la prima bussola da seguire.



Cesare Ripa, uno dei nostri più abili inventori di immagini del tardo Rinascimento e dell’età barocca, quando delinea nella sua Iconologia la figura della “Correzione”, la descrive come una “donna vecchia e grinzosa”, che esercita la sua implacabile funzione di giudice dei pensieri e delle azioni degli uomini tenendo in una mano un bastone, oppure una frusta, e nell’altra una penna con la quale, come i maestri di un tempo, raddrizza gli errori sparsi sui fogli che ha davanti, «aggiungendo e togliendo varie parole». Lo “staffile” della vecchia allude ai castighi che, anche a costo di provocare “dispiacere del corpo”, mirano a tutelare il rispetto ordinato degli obblighi imposti dalla “conversazione politica”, cioè dalla pacifica convivenza dei molti dentro la piramide della polis, della grande “città” costituita dall’insieme della società umana. La penna che tortura gli esercizi letterari degli allievi fa pensare al controllo cui deve essere sottoposto ciò che è la fonte dei comportamenti e dei gesti pratici degli individui: vale a dire le loro “contemplazioni”, nutrite dalle loro convinzioni interiori e dalla visione dei doveri che essi sono chiamati a svolgere nel concerto della vita comune.

Una “disciplina” così concepita non serviva solo ad addomesticare la forza degli impulsi che condizionano gli atti con i quali entriamo in relazione con gli altri. Legava e costringeva il cuore, il senso di identità, la stessa coscienza etica degli individui. In una società a lungo immaginata come una grande famiglia patriarcale, che destinava ognuno a ruoli diversi chiamandolo a interpretare una parte fissata da una vocazione esigente, la virtù dell’obbedienza vantaggiosa cementava i rapporti del superiore con l’inferiore e faceva del popolo, almeno idealmente, una collettività di uomini solidali. Ma la disciplina che corregge le colpe e ammaestra educando agli imperativi della legge morale mostra anche tratti evidenti di parentela con una religione che non poteva esonerare dalla lotta e dal sacrificio. La sua era un’anima religiosa che insegnava a rinunciare alle più immediate convenienze egoistiche in nome dell’immedesimazione con un ideale umano più alto. Per arrivarci, bisognava rendere nuova la propria esistenza. A questo servivano anche il controllo minuzioso sulla condotta quotidiana, la confessione dei peccati e l’“esame di coscienza”. Si affacciava continuamente il rischio di elaborare una morale sganciata dai princìpi esistenziali che ne costituivano l’ossatura portante. Così l’etica minacciava di franare in uno scheletro di precetti esterni irrigiditi, puramente mondanizzati. Ma anche dietro il suo volto più ingenuamente deformato, si coglieva sempre il profilo di una “christiana disciplina”, ereditata dalla tradizione pastorale della Chiesa delle origini, che ha accompagnato, con i suoi alti e bassi, l’intera storia della nostra cristianità. Non c’è quindi motivo di insistere, come vorrebbe una tendenza storiografica che si è diffusa negli ultimi decenni, sulla esplosiva “modernità” del connubio che solo i due movimenti convergenti della Riforma protestante e della Controriforma cattolica avrebbero saldato fra il bisogno di una disciplina “politica” delle grandi masse di uomini inquadrate nelle reti degli Stati e la tessitura dei loro vincoli di appartenenza omogenea a un’unica confessione religiosa condivisa con il “principe” del territorio (“cuius regio, eius et religio”). Il “disciplinamento” della società non ebbe inizio allora, né esso si espresse unicamente nell’alleanza fra trono e altare fin dall’inizio proiettati verso la costruzione dello stato-piovra tipico dell’assolutismo otto-novecentesco.