Ha più di ottantotto anni il professor Bozidar Darko Sustersic, paraguayano docente di storia dell’arte a Buenos Aires e da decenni rinomato studioso sia sotto il profilo artistico sia sotto il versante storico delle “reducciones”, le riduzioni dei Guaranì al tempo dell’arrivo dei Gesuiti nel suo Paese. Un’età avanzata che non spegne però l’energia vitale trasmessa dagli occhi azzurri e vispi, dalla lucidità del pensiero, dalla passione con la quale parla della storia del proprio popolo nonché dall’indomabile voglia di vedere tutto, ma proprio tutto quello che lo circonda all’ultima edizione del Meeting di Rimini. Già, perché quest’anno il professore è, in un certo senso, ospite privilegiato dal momento che una delle mostre è proprio dedicata alla storia delle riduzioni in Paraguay, terra dove l’amico missionario Don Aldo Trento, anch’egli presente alla kermesse riminese, da una trentina d’anni segue le sorti della sua opera, una casa di accoglienza per malati terminali. Là, nel cuore dell’America Latina.



Professor Sustersic, solitamente parliamo di incontro fra la cultura occidentale e quella orientale, in quali modalità si espresse invece il contatto fra l’occidente moderno e il popolo guaranì?

Questo è un argomento molto interessante intorno al quale mi piacerebbe sentire l’opinione del professor Carmine di Martino che ha parlato della cultura occidentale al Meeting di Rimini e che ho molto apprezzato. Per quel che posso dire fu davvero “interessante” da entrambe le parti venute a contatto. Mi spiego. Prima dell’arrivo dei Gesuiti, nel XVII secolo, i guaranì avevano già visto arrivare agostiniani e francescani. Ma con questi ordini il rapporto fu alquanto difficile, perché la figura di Gesù così come veniva introdotta non riusciva ad affascinare il loro popolo. Fu grazie ai Gesuiti che le cose cambiarono e i guaranì, che già nel loro credo aspettavano l’arrivo di una sorta di “messia”, accettarono di buon grado il messaggio evangelico.

Per quale motivo i gesuiti conseguirono questo “successo” lungo la loro evangelizzazione? 

Fu una questione di approccio e comprensione della mentalità. I gesuiti furono i primi, o più precisamente i più attenti, a non censurare, a non cancellare interamente la cultura del popolo che andavano a evangelizzare, bensì a completarla. Non si trattò dunque di una sostituzione di credo, ma di una rivelazione a tutti gli effetti di quanto i guaranì stavano attendendo.

Può fare qualche esempio?

Certamente, ma prima di tutto vorrei approfondire quello che intendo per “mentalità”. Occorre infatti tener presente che gli europei del XVII secolo, come d’altra parte noi che ne siamo i discendenti, imperniavano il proprio pensiero sulla logica aristotelica, il logos greco che, incarnatosi nel Dio cristiano, trovava il compimento della ragione. Ora, è chiaro che per formare una simile visione del mondo occorrono, come sono occorsi, parecchi secoli e non qualche anno di missione. I Gesuiti capirono che per parlare di Gesù Cristo sarebbe stato necessario rifarsi alla sensibilità locale. Quest’ultima non era lineare, logica e deduttiva, bensì incentrata sulla “selva”, sulla compagnia, sulla tribù. Fu dunque un approccio assai più esperienziale che teorico quello compiuto dai missionari che fondarono le reducciones. E adesso arrivo all’esempio: in uno dei più ancestrali e sanguinari rituali guaranì il guerriero più valoroso alla fine di una battaglia veniva fatto a pezzi e mangiato dalla comunità perché ognuno potesse così partecipare del suo valore. Lascio intuire come i gesuiti riuscirono a spiegare l’Eucarestia. Ma soprattutto come furono sorpresi di vedere l’entusiasmo mediante il quale i guaranì battezzati vivessero tale sacramento.

Non si tratta però di svilire questo sacramento al cannibalismo? 

In primo luogo non era proprio cannibalismo, ma antropofagia. Una differenza sottile, ma essenziale. Il sacrificio del guerriero aveva tutti i connotati di un rituale religioso. Non mangiavano carne umana abitudinariamente. Poi è ovvio che i convertiti avessero colto la differenza sostanziale fra un gesto e l’altro. Ciò non toglie che la grande coscienza con la quale si avvicinavano alla Comunione fosse in un certo senso iscritta nel loro DNA. In poche parole il cristianesimo dava il senso compiuto di quell’archetipo religioso che era l’antropofagia presso le loro usanze.

Da un punto di vista morale che cosa cambiò?

In questo campo ci sono divertenti esempi di fraintendimenti e contraddizioni nel corso della trasmissione del messaggio cristiano in Paraguay. Per esempio i guaranì non riuscivano a capire il concetto di inferno, perché nella loro religione non c’erano i dannati, ma solamente malvagi che dovevano transitare per qualche tempo in una sorta di purgatorio. Di simile al Biblico ammonimento per il quale “chi risparmia il bastone al proprio figlio non lo ama” avevano l’educazione paterna. Se infatti un padre di famiglia puniva con delle percosse il proprio figlio per uno sbaglio quest’ultimo lo ringraziava. Se ciò non avveniva addirittura il figlio si sentiva poco amato al punto da chiedere: «padre, perché non mi hai picchiato? Non mi ami più?».Interessante fu invece come elaborarono la Resurrezione.

In che senso?

Nel senso che per loro l’idea di morte era davvero molto diversa dalla mentalità occidentale. In un certo senso l’avevano censurata. Nel linguaggio guaranì non si diceva «vado a seppellire mio padre», ma «vado a piantare mio padre». Come se il cadavere fosse un bulbo dal quale sarebbe rinata la vita. In questo senso la Resurrezione di Cristo venne proprio accettata come resurrezione di tutte le resurrezioni. L’evento che permetteva il rinascere della vita.  

Lei studia storia dell’arte. Quali cambiamenti portò l’incontro con la cultura Guaranì?

Uno su tutti il modo di dipingere la Madonna. A quel tempo infatti molti pittori occidentali, chiamati ad affrescare chiese o a dipingere quadri dal tema religioso, rappresentavano i santi, ma soprattutto la Madonna con gli occhi rivolti al cielo oppure fissi verso l’infinito, con uno sguardo assente. Numerosi sono i casi in cui i guaranì si rifiutarono di pregare davanti a questo tipo di immagini. Il motivo risiede nel fatto che contestavano l’idea di rivolgersi a personaggi che non si degnavano di guardarli in faccia. «Se io prego» pensavano gli indigeni «colui al quale mi rivolgo deve vedermi». Insistettero così tanto su questo punto che alla fine le rappresentazioni sacre vennero dipinte con gli occhi fissi verso il basso, in direzione del popolo che pregava. Questa la trovo una storia davvero commovente. Gli stessi gesuiti apprezzarono l’idea, un atteggiamento più concreto nei confronti della presenza di Dio nella vita quotidiana. E furono molti gli episodi in cui si assistette a una compenetrazione fra le due culture. Col tempo molti gesuiti asserirono di non aver conosciuto altro popolo in cui la fede cristiana fosse così radicata, e cominciarono ad augurarsi che tale fervore prendesse piede anche in Europa. Io stesso tutt’oggi penso che l’Europa dalla cristianità dell’America Latina debba ricevere almeno tanto quanto in passato ha dato.

A proposito di cristianità, lei è amico di Don Aldo Trento. Come giudica la sua opera nel suo Paese?

Don Aldo Trento sta costruendo un’opera grandiosa. Certo non si può dire tecnicamente che egli abbia rifondato le riduzioni dei gesuiti, perché si occupa di malati terminali, ma voglio raccontare un aneddoto. Una volta portò con sé una donna giunta alla fine di una vita alquanto infelice. Nel giro di pochi giorni in cui si era trovata nella casa di don Aldo ella esclamò: «per tutta la vita sono stata maltrattata, e adesso che sto per morire scopro che cos’è la felicità». E non aveva la minima paura di morire, proprio perché, accortasi dell’esistenza della felicità, per lei era chiaro che morendo sarebbe andata direttamente alla fonte di tale esperienza che provava sulla terra. Credo che l’esperienza delle Reducciones, la felicità che provarono i guaranì accolti dai gesuiti non sia stata molto diversa da quella di questa donna.