Quei giornalisti della Federazione Internazionale della Stampa che hanno estromesso i colleghi israeliani (come è cambiato il mondo, ricordo che nel 1975 la stessa Federazione mi invitò a New York a partecipare ad un convegno sui giornalisti perseguitati e incarcerati nei Paesi comunisti), dovrebbero rileggersi «Il fumo di Birkenau», di Liana Millu. Già, chi è, anzi chi era Liana Millu? Se fosse ancora viva, Liana Millu avrebbe oggi 87 anni. Purtroppo è mancata quattro anni or sono. È stata una grande giornalista e una grandissima scrittrice, ed è una vera indecenza che oggi non la ricordi più nessuno. Livornese di origine, ma trasferitasi a Genova in ancor giovane età, il suo «Fumo di Birkenau» è il romanzo-testimonianza sui Lager nazisti che può considerarsi la «versione femminile» di «Se questo è un uomo» di Primo Levi.      



Liana Millu, ebrea, fu catturata nel ’44 dai tedeschi in Toscana, dov’era staffetta della Resistenza, e deportata ad Auschwitz-Birkenau. Riuscì a sopravvivere all’allucinante esperienza e a tornare in Italia al termine di un avventuroso viaggio che racconterà, con grande forza narrativa, ne «I ponti di Schwerin» (selezione Premio Viareggio), un’altra delle sue opere di successo. Ma il suo exploit più inatteso fu quello che le capitò in Germania alla fine del Novecento, e precisamente nel 1998. Quell’anno, la casa editrice Kunstmann di Monaco la contattò per proporle la pubblicazione in Germania del «Fumo», neppure immaginando la grande eco che la pubblicazione avrebbe avuto. Uscito con il titolo «Der Rauch über Birkenau», il libro-testimonianza fu per quasi un anno ai primi posti nelle classifiche dei libri più venduti: servizi televisivi nelle trasmissioni più popolari, come «Das literarische Quartett», e colonne di piombo sui giornali più diffusi come la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» e la «Süddeutsche Zeitung».



Liana Millu ricevette una valanga di lettere dalla Germania. Ebbi l’occasione di leggerne alcune, che conservo ancora nel mio archivio. Una giovane mamma di Francoforte, Inge Henkel, così le scriveva: «Ho letto il suo libro allattando la mia piccola figlia Liana. Abbiamo scelto questo nome dopo aver visto alla televisione un servizio dedicato a lei. Poi abbiamo comprato il libro. Mi ha profondamente commosso. Siamo fortunati noi giovani. Io ho un’amica italiana a Roma. Oggi tutte queste cose, come la nostra amicizia, i nostri incontri, sembrano facili e normali. Dobbiamo esserle tanto riconoscenti. Grazie di avere scritto questo libro. Ora, dopo averlo letto, sono ancora più contenta del fatto che nostra figlia porta il nome di una ebrea italiana».



Ma di che cosa parlava «Il fumo di Birkenau»? Si tratta di una serie di sei racconti dal vero, scritti a caldo da Liana Millu, nel 1946, pubblicati per la prima volta l’anno seguente dall’editore Giuntina, di Firenze, poi ristampati decine di volte fino ad anni recenti. Storie che fanno rabbrividire e che dovrebbero semplicemente far diventare rossi di vergogna coloro che sostengono che le camere a gas non sono mai esistite.

Ecco un brano del libro:

« – Deve avere un bambino – diceva la vecchia. – Deve avere un bambino, è già di qualche mese. Per questo sta male! Non se ne sono accorti. Ancora adesso lei sa imbrogliare tutti: ha rotto le coperte per fasciarsi stretta. Ma io me ne sono accorta. A me non può darla a intendere.

            « (…)

            « – Di quanto sei? – Oggi sono entrata nei sette mesi – rispose. Così il ghiaccio fu definitivamente rotto, e la prima cosa che mi fece fare Maria fu giurare solennemente che mi sarei guardata dal confidare a chicchessia il pericoloso segreto. – Se mi accadesse qualcosa, l’avresti tu sulla coscienza! – ripeteva. Io la rassicurai: perché sarei dovuta andare in giro a far chiacchiere? E a chi avrei dovuto dirlo? Alla vecchia Adela?

            « – Proprio a lei non bisogna dir niente – insisté Maria – perché essa mi odia, capisci? Ma odia perché lo indovina, e a lei hanno ammazzato la figlia. Era quasi di nove mesi quando arrivò e così non la fecero nemmeno entrare in campo. Ed ora Adela non può sopportare di vedere che c’è un’altra che riesce ad andare avanti, e il bimbo nascerà quando la guerra sarà finita e torneremo a casa tutti e due, mentre lei è sola ed ha così poca speranza di tornare perché sa benissimo che con i suoi capelli grigi prima o poi se ne va in una selezione. Una volta mi ha detto: – Tu credi di poter andare avanti così? E che tutto ti vada bene sino in fondo? Ma Dio ci sarà anche per te, e se ha fatto morire la mia figliola con il suo bambino che stava per nascere, non permetterà che tu metta al mondo il tuo! (…) Anche se riuscirai a sgravarti sarà tutta fatica inutile, perché ti prenderanno il bambino e te lo butteranno nel forno senza nemmeno darsi la briga di passarlo ai gas. È tutta fatica inutile la tua!

            « – Questo ti ha detto Adela? – interruppi impietosita, perché vedevo come si agitasse e i suoi occhi stanchi si riempissero di lacrime. – Non è mica scritto che debba essere così. (…) Tra due mesi è tutto finito. Cosa stai a piangere, sciocca?».

Nella prefazione de «Il fumo di Birkenau», scritta da Primo Levi nel 1947, si legge tra l’altro: «è fra le più intense testimonianze europee sul Lager femminile di Auschwitz-Birkenau: certamente la più toccante fra le testimonianze italiane. Consta di sei racconti, che tutti si snodano attorno agli aspetti più specificamente femminili della vita minimale e disperata delle prigioniere. La loro condizione era assai peggiore di quella degli uomini, e ciò per vari motivi: la minore resistenza fisica di fronte a lavori più pesanti e umilianti di quelli inflitti agli uomini; il tormento degli affetti familiari; la presenza ossessiva dei crematori, le cui ciminiere, situate nel bel mezzo del campo femminile, non eludibili, non negabili, corrompono col loro fumo empio i giorni e le notti, i momenti di tregua e di illusione, i sogni e le timide speranze».