Lo beatificheranno il 25 ottobre, ma in una nicchia starà senz’altro scomodo. Don Carlo Gnocchi non era un santino, semmai, alla sua maniera, sul lato della carità, uno dei protagonisti del miracolo italiano. Solare, ottimista, gran lavoratore, con quella positività tutta lombarda che sin dai tempi dell’Illuminismo intreccia terra e cielo e coniuga gli ideali dell’anima con i bisogni del corpo.



La storia di don Carlo è dunque quella di un prete coraggioso, ardimentoso, quasi temerario che scopre di avere addosso una vocazione particolare, quella per i mutilatini, e scommette tutto su quell’intuizione. Sono paradossalmente gli anni della guerra quelli in cui matura l’idea di occuparsi degli ultimi fra gli ultimi, le piccole e incolpevoli vittime dell’odio, i bambini che sono saltati sulle bombe e sui residuati bellici. Insomma, quello di Carlo è un percorso controcorrente: va in guerra come cappellano degli Alpini, osserva tutto il male quasi irredimibile del conflitto, assiste alla morte degli uomini e dell’Uomo, calpestando il ghiaccio sconfinato della Russia. Torna però a casa non ripiegato su se stesso, ma deciso a caricarsi sulle spalle il dolore innocente di quei bambini feriti, umiliati e abbandonati al loro destino. È il genio del cristianesimo: trasformare la morte in vita, la disperazione in speranza, la barbarie in civiltà. O, se si preferisce, costruire sul dolore, dove tutti gli altri pensano che non ci sia più nulla da fare. Come ha fatto Cristo in croce.



Il resto è la storia prodigiosa delle opere create freneticamente nell’arco di poco più di dieci anni, dal 1945 al 1956, quando don Carlo muore prematuramente. Il suo ragionamento è evangelicamente semplice: ai mutilatini è stato tolto molto, molto dev’essere restituito. L’importante è non abbandonarsi ad una carità alla vecchia maniera, fra paternalismo e fioretti. No, ci vuole altro. Medicine. Riabilitazione. Studio. Giochi. La prospettiva di creare tante famiglie e di tornare nella società. Mai, mai piangersi addosso e maledire la sorte. Don Carlo diventa per tanti piccoli sfortunati un padre e l’espressione non ha alcuna retorica per centinaia di bambini che erano stati parcheggiati, spesso da famiglie poverissime, in istituto.



Lui li segue uno ad uno, per loro va a battere cassa presso le grandi famiglie della borghesia ambrosiana, per loro tesse una fitta trama di rapporti politici che lo portano a Roma, da Andreotti e De Gasperi. Con loro va in udienza da Pio XII e al papa, che vorrebbe farlo vescovo, replica con garbata fermezza: «Santità, la ringrazio ma se mi lascia con i miei ragazzi sarei anche più contento».

La vocazione è diventata una missione. Il cappellano si rivela un grande uomo. In altre parole, un santo. Anticonformista fino all’ultimo giorno. Muore donando le cornee con un gesto di amore e libertà che supera i divieti della legge, che all’epoca proibiva i trapianti, e i dubbi dei teologi moralisti, divisi sul punto. Lui è oltre. A ben guardare, avanti. Già in cielo. Ma ben saldo sulla terra, dove le sue opere avranno dopo la sua morte una grande fioritura.

Ai suoi funerali in Duomo, il cardinal Montini, futuro Paolo VI, chiama al microfono un mutilatino che inventa la più bella delle prediche: «Ciao, prima ti chiamavo don Carlo, adesso ti chiamo San Carlo». Sono in centomila ad applaudire.

Speriamo che la beatificazione spinga i milanesi e gli italiani a togliere la polvere dall’immagine di don Carlo Gnocchi.