Mostre sul Futurismo, biennali, gallerie, rane crocifisse o tenute in mano da ragazzini di plastica, cadaveri impiccati nei parchi di Milano (sono marionette), auto nuove schiacciate da imponenti massi nel centro di Berlino e via dicendo. Qualcuno le chiama opere d’arte, altri le apostrofano con il titolo meno nobile di fesserie. Intanto le librerie straripano di volumi di critica d’arte, cataloghi, recensioni farcite di termini spesso incomprensibili. Ma quanto di tutto ciò incide sulla vita quotidiana? Quale influenza reale ha l’arte figurativa contemporanea sugli uomini contemporanei? E soprattutto in che misura questi ultimi possono accedere al mondo sempre più esoterico ed ermetico dell’arte figurativa attuale? Abbiamo posto questi interrogativi alla critica d’arte Beatrice Buscaroli che, fra molte perplessità, dà un giudizio sull’attuale stato delle cose proponendo un ritorno alla comprensione collettiva  



 

Che nesso c’è fra l’arte contemporanea e la conoscenza o la rappresentazione della realtà?

Se per quanto riguarda l’arte e la storia dell’arte si può parlare tranquillamente di “avventura della conoscenza” non sono molto convinta che in quest’ultimo secolo le conquiste dell’arte si possano considerare “conoscenza” oppure il contrario. È interessante l’idea di porsi il problema sebbene sia una questione pressoché infinita il risolverlo. Personalmente credo che l’arte contemporanea, l’arte attuale sia oggetto di una grossa problematicità che rende necessario l’uso di più interpretazioni. Non penso quindi che in questi anni, nel secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle l’arte possa essere fonte di conoscenza, piuttosto rappresentazione del dubbio. Ben inteso, penso che esistano dei momenti storici nei quali le arti abbiano bisogno di silenzio e riflessione su di sé. Credo che noi ci troviamo nel pieno di uno di questi momenti. L’arte figurativa è in un grande periodo di silenzio.



A quali cause attribuisce questo “silenzio” dell’arte di cui parla?

Il problema deriva da molto lontano, ma sorge realmente nell’Ottocento, quando per la prima volta il pubblico si separa dall’opera d’arte. È quanto accade con l’Impressionismo.

L’analisi di Ardon Hauser, che peraltro è uno storico sociale che ha scritto un importante saggio, appunto la “Storia Sociale dell’Arte”, sembra anticipare un sacco di atteggiamenti artistici che poi si sono puntualmente verificati, sia nel primo novecento sia adesso. Hauser parte dall’idea che con l’Impressionismo il pubblico non riesca più ad agire direttamente, interagire o intendersi con l’artista e abbia per questo bisogno di una figura di mediazione, il critico. Non a caso la cosiddetta critica d’arte militante nasce alla fine dell’Ottocento. Questa “secessione” è stata poi ribadita con le avanguardie sebbene quest’ultime mantenessero anche una parte rumorosamente folcloristica. Ad esempio i futuristi italiani o i dadaisti in Francia potevano in un certo senso blandire ancora il pubblico, divertirlo, allettarlo. Ma con l’avanzare del Novecento grandissima parte della produzione artistica comincia a separarsi dalla comprensione della gente.



Si potrebbe obiettare che la comprensione della gente non è l’obiettivo dell’arte.

Però va detto anche che lo è sempre stato. E anche senza entrare nella favola bella della Biblia Pauperum. In fondo per secoli e secoli il linguaggio figurativo è stato quello che univa i popoli occidentali. Gli spagnoli al Messico, per esempio. Se uno spettatore dovesse contemplare una chiesa barocca messicana capirebbe al volo come la stessa sensibilità di un contadino messicano coincidesse con quella di un collega spagnolo. Il Novecento ha distrutto tutto questo, non so dire se è un bene o se è un male, fatto sta che è un fatto.

Che cosa non la convince dunque?

La contraddizione intrinseca in questo modo di pensare. È noto che certe opere d’arte alla Biennale di Venezia, un palcoscenico fra i più importanti del mondo se non il più importante, non vennero (e talvolta anche oggi non vengono) interpretate come tali dalla gente “normale”, dai “non addetti ai lavori”. Un esempio è la famosa “Porta” di Marcel Duchamp che venne ridipinta da alcuni solerti operai durante l’allestimento. Questo che noi oggi consideriamo una specie di aneddoto fu il principio. Fu voluto nel momento in cui gli artisti riprodussero oggetti d’arte non considerandoli a loro volta tali. È stato questo secolo di “servi”, com’è stato il Novecento, a considerare queste come opere d’arte reinserendole nel meccanismo produttivo di: opera d’arte-museo-installazione-valore-soldi-prezzo.

Quindi il mercato ha trasformato un gesto eversivo in qualcosa di catalogabile?

Certo. Nel momento in cui Malevich dipinge il “quadrato nero” volendo azzerare la pittura e Duchamp porta gli oggetti di uso comune nei musei volendo azzerare la “musealizzazione”, essi compiono dei veri gesti eversivi. È stato il Novecento che poi si è ripiegato su se stesso e ha come re inglobato tutto questo all’interno del sistema normale. Questo per me è il paradosso.

Le conseguenze quali sono?

Nel fatto che oramai i critici o i ma?tre à penser predichino cose sull’arte che comunque non vengono praticate dagli artisti stessi. L’esclusione della pittura da tante mostre internazionali degli ultimi 10-15 anni è un fatto. Però la realtà vera della pittura che gira nei circuiti minori fa capire che qualcosa non va, i dati non tornano. L’arte autentica sta uscendo dai circuiti ufficiali con il paradosso che questi sponsorizzano un’arte sedicente “alternativa”. Penso che su questo almeno i giovani debbano cominciare a ragionare.

Non possiamo più subire un sistema negativo e nichilista che non ci appartiene senza neanche criticarlo.

Come si può ridestare un sentire comune dell’arte?

Noi studiosi molte volte sottovalutiamo la vera forza della Biblia Pauperum. Il fatto che nel ’300 un contadino spagnolo potesse identificare nel “santo con il maiale” sant’ Antonio denota la vera appartenenza a una comunità e l’autentica relazione fra arte e spettatore. Questa era la vera Europa, non l’Europa finta di adesso. Oggi nei corsi universitari occorre spiegare che il cerchio intorno alla testa dei santi si chiama aureola. Che radici rimangono della nostra cultura?

A mio avviso occorre ripartire da capo, ricominciare tutto. Dobbiamo tornare almeno a intenderci di nuovo sul linguaggio figurativo comune e su una conoscenza diffusa e sentita delle sue origini.