L’89 è l’anno “formidabile” in cui esplosero tutte le tensioni politico-sociali maturate nel blocco socialista e molti popoli riacquistarono la libertà perduta dal dopoguerra. Certamente fu anche merito di Gorbacëv, che “sollevò il coperchio” senza rendersi conto che sarebbe stato poi impossibile richiudere il pentolone totalitario, ma dove ciò avvenne senza colpo ferire fu soprattutto grazie alla preparazione di un nuovo “humus sociale” da parte del brulicante e coloratissimo mondo del “dissenso”. Le aperture indotte dal nuovo segretario non più generale ma minerale dell’URSS (come lo chiamavano per aver introdotto la lotta all’alcoolismo) ebbero serie conseguenze specialmente a Praga, Sofia, Berlino, Bucarest, dove si acuirono gli attriti fra i “falchi” paleocomunisti e le “colombe” più inclini a seguire il vento della perestrojka (che li avrebbe portati poi spesso a riciclarsi, dal Capitale al “capitale”).
Nel gennaio ’89 Gorbacëv promise la riabilitazione delle vittime di Stalin, mentre in Ungheria fu concessa la creazione di partiti politici in vista delle elezioni di marzo in cui poi vinse il Forum Democratico causando la débacle comunista. A Praga la settimana dedicata alla memoria di Jan Palach e organizzata dai gruppi informali finì con le solite cariche della polizia contro i dimostranti cui seguirono arresti (si sarebbe replicato il 21 agosto). In Polonia poté invece riprendere l’attività del sindacato indipendente Solidarnosc, liquidato dopo l’“autoinvasione” del dicembre ’81.
A maggio, mentre Estonia e Lituania dichiaravano la loro indipendenza economica dall’URSS, tra Austria e Ungheria si iniziò a smantellare la cortina di ferro che separava le frontiere. Il 4 giugno, mentre in Polonia i candidati di Solidarnosc ottenevano il plebiscito col 94% dei voti, in Cina – poche settimane dopo la visita di Gorbacëv – avveniva il massacro degli studenti di piazza Tian-an-men. A metà luglio l’URSS conobbe un’ondata di scioperi dei minatori dalla Siberia fino al bacino carbonifero del Don, dopo mesi durante i quali non avevano ricevuto lo stipendio. Nel frattempo la rivista “Novyj Mir” iniziò la pubblicazione dell’Arcipelago Gulag di Solženicyn. A Mosca giunsero dall’Ucraina molti greco-cattolici a manifestare per la legalizzazione della loro Chiesa, assorbita forzatamente nell’ortodossia per volere di Stalin nel ’46. Il 23 agosto si snodò la catena umana di 600 km e composta da due milioni di persone fra i Paesi baltici, di cui abbiamo già parlato qui con l’onorevole Vytautas Landsbergis.
A settembre seguì l’esodo tra il festoso e il drammatico di migliaia di cittadini tedesco-orientali diretti, a bordo delle loro Trabant, a chiedere asilo politico presso l’ambasciata tedesco-occidentale di Praga, oppure verso Polonia e Austria, mentre a Lipsia cominciavano le manifestazioni di massa contro il governo di Berlino Est. Dimessosi Honecker, il 9 novembre furono aperte le frontiere tra le due Germanie: al grido di “Fateci uscire!” degli uni e “Fateci entrare!” degli altri, i berlinesi dell’Est e dell’Ovest poterono riprendere possesso di una capitale sfregiata da 28 anni di Muro. Il puzzle comunista stava andando in pezzi: tra novembre e dicembre fu la volta di Praga con la “rivoluzione di velluto”, poi toccò alla Bulgaria e infine al tiranno Ceausescu. L’URSS avrebbe conosciuto fasi alterne, fino alla disgregazione in varie repubbliche nel ’92.
A vent’anni dall’89 si moltiplicano, specie in quei paesi, mostre e commemorazioni. Da noi, nel maggio scorso, in occasione di un convegno sul tema svoltosi presso l’Università Statale di Milano, il governatore Formigoni ha suggerito alcune chiavi di lettura sull’89 che ben riassumono quella “politica non politica” tanto cara al dissenso centroeuropeo e che ci ha ricordato Sante Maletta in questo sito. Innanzitutto – spiegava Formigoni – l’89 ha affermato l’anelito del cuore umano alla libertà, alla liberazione pacifica, capace di dimostrare che la storia è un campo aperto all’influsso delle azioni dell’uomo. In questo si collega ai valori della tradizione cristiana e liberale. Lungi dall’essere il frutto di avanguardie egemoniche, gli eventi dell’89 hanno affermato «un io collettivo interclassista», ossia una vera rivoluzione popolare, «una specie di eredità del Komintern» come l’ha definita scherzando László Rajk, ex-attivista ungherese presente al convegno. Infine, secondo il governatore lombardo, l’89 ha dato un impulso decisivo al processo di globalizzazione, introducendo nuove dinamiche di sviluppo. La svolta dell’89 – ha detto ancora Rájk – «fu il risultato di un’azione testarda e quotidiana; non tanto una rivoluzione romantica guidata dalla Marianne con bandiera in mano e poppe al vento, quanto piuttosto una rivoluzione autolimitata, che esaminava le possibilità reali di opporsi al regime e che ha creato istituzioni assenti nel totalitarismo». È ciò che Havel ne Il potere dei senza potere, citando Masaryk, definisce il “lavoro minuto”, quello quotidiano e responsabile, svolto negli ambiti più disparati della vita e capace di «destare una creatività e un’autocoscienza nazionale: il punto di partenza di un cambiamento di posizione della nazione era per lui il cambiamento dell’uomo».