Un giorno d’estate, nei primi anni ’30, il professor Tolkien, correggendo un compito trovò che una pagina era stata lasciata in bianco: «la cosa migliore che possa capitare ad un esaminatore» pensò «Io ci scrissi sopra: “In una caverna sotto terra viveva un Hobbit”». I nomi spesso facevano scaturire dalla mia mente una storia. Alla fine pensai che fosse meglio scoprire a che cosa assomigliassero gli hobbit. E questo non fu che l’inizio”. Cosa insolita per i paludati professori di Oxford, Tolkien si lasciò prendere dall’ispirazione quel giorno d’estate e, così facendo, segnò il suo destino diventando per tutti “il padre degli Hobbit” e l’autore più letto al mondo. Interessante il “metodo” tolkieniano (un uomo che fu definito dall’amico C.S.Lewis come «tiratardi e privo di metodo»): prima i nomi, poi le storie; sono i nomi che nella mente del filologo Tolkien, fanno scaturire delle storie. Del resto è così anche per gli uomini, appena si nasce viene dato loro il nome e quindi può partire la loro storia, quasi ad adempiere quella promessa che è inscritta nel nome.
«In una caverna sotto terra viveva un Hobbit» è diventato uno degli incipit più famosi del ’900: il 21 settembre del 1937 esce in Inghilterra Lo Hobbit, «la più bella favola degli ultimi cinquant’anni» secondo la definizione del poeta W.H. Auden, che del professore di Oxford J.R.R.Tolkien fu peraltro illustre allievo. Il successo di questa lunga favola porterà lo scrittore inglese a scriverne il seguito che, uscito nel 1953, diventerà in breve tempo uno dei romanzi più letti al mondo: Il signore degli anelli, soppiantando nella fama Lo Hobbit che della celebre trilogia rappresenta l’antefatto.
In effetti c’è un bel “salto” tra la favola del ’37 e la saga (tre volte più lunga) del ’53: lo scrittore è maturato, il respiro si è fatto epico, il tono più drammatico e a tratti aulico.
Ma, innanzitutto, di che parla Lo Hobbit? In estrema sintesi: il regno dei Nani di Erebor, la Montagna Solitaria, è distrutto dall’arrivo del drago Smaug che si impossessa del grande tesoro dei Nani, nel cuore della montagna. Dopo tanti anni di peregrinazioni, un piccolo “resto” di quel popolo (un gruppetto di 13 Nani guidati dal re Thorin) si riorganizza per riconquistare il regno e il tesoro e, guidati dal saggio mago Gandalf, ritorna in patria, accende la miccia della rivolta contro il drago che alla fine verrà ucciso. Tutto questo avviene grazie al provvidenziale intervento di un piccolo ometto, Bilbo Baggins, lo Hobbit di cui parla il titolo. Bilbo è un pacifico abitante della pacifica Contea, patria degli Hobbit, esseri che hanno in comune con i Nani l’altezza, ma solo quella. Gli Hobbit infatti non combattono, non accumulano tesori, non viaggiano, non fanno nulla di particolarmente “avventuroso”… sono una versione pigra, gaudente e oziosa degli uomini occidentali contemporanei (alcuni dicono “degli inglesi contemporanei”), però sotto questa scorza di accidia, batte un cuore forte, tenace, capace di resistere al male forse più di ogni altro essere abitante nella Terra di Mezzo (la fantastica landa inventata da Tolkien, che poi è il nostro mondo).
L’ingresso di Bilbo nella compagnia dei Nani permetterà il lieto fine dell’avventurosa marcia verso “la riconquista del tesoro”. È proprio questo il sottotitolo del libro ad indicare come i canoni dell’epica classica siano stati rispettati: Lo Hobbit infatti ricalca fedelmente lo schema della Quest presente in altri poemi antichi, dall’Eneide al ciclo del Graal (un lungo viaggio per riconquistare una terra o un oggetto al fine di ripristinare una situazione di pace che è stata interrotta da un evento violento e improvviso) e che poi Tolkien ribalterà totalmente nel suo capolavoro basato sul paradosso di un viaggio non a cercare o conquistare, ma a perdere, a rinunciare (l’anello del potere non deve essere preso ma abbandonato, distrutto).
Dal punto di vista biografico-letterario l’irruzione degli Hobbit nella produzione di Tolkien fu decisiva riuscendo a trovare un punto di mediazione tra le storie “alte” e le storie “basse” che lo scrittore aveva composto sin dalla fine degli anni ’10, dove per “storie alte” s’intendono i racconti degli Elfi che poi confluiranno nel Silmarillion, tutti impregnati del sapore “nordico” tipico delle leggende e saghe scandinave e germaniche, mentre con il termine “storie basse” ci si riferisce alle tante storielle-filastrocche che papà Tolkien sfornava per i suoi quattro figli in particolare negli anni della loro infanzia, dalle Avventure di Tom Bombadil a Roverandom, da Mr.Bliss alle famose Lettere di Babbo Natale, una finta corrispondenza epistolare tra Babbo Natale e la famiglia Tolkien per cui, ogni 25 dicembre, per quasi 20 anni, veniva recapitata una lettera proveniente dal Polo Nord, in cui il mittente raccontava una serie di episodi curiosi e divertenti arricchendo la narrazione con molte colorate illustrazioni (anche queste tutte opera dello scrittore-genitore). I due piani, cupo e aulico il primo, e infantile e allegro il secondo, sarebbero stati destinati a non incontrarsi mai se non fosse piombato in quel giorno d’estate quel nome magico, lo Hobbit. Sono proprio gli Hobbit, i Mezzi-Uomini, che stanno “in mezzo”, non a caso abitano nella Terra di Mezzo, e fanno da collante tra il mondo antico e lontano del Silmarillion e quello lieto e domestico storielle scritte ad uso e consumo familiare. Sono gli Hobbit che, uscendo dalla protetta e ovattata Contea e avventurandosi nel mondo pieno di pericoli della Terra di Mezzo, conducono il lettore in un’esperienza al termine del quale ci si scopre diversi rispetto a quando si era partiti. Così gli Hobbit del Signore degli anelli ritornano nella Contea più alti fisicamente, come Merry e Pipino, ma anche più saggi e coraggiosi (Sam) o semplicemente “feriti” quindi aperti ad un destino ulteriore e trascendente come Frodo, comunque “di più”. Così accade anche nello struggente finale de Lo Hobbit in cui il morente re Thorin, felice per aver riconquistato il suo regno, ringrazia Bilbo con queste parole: «in te c’è più di quanto tu non sappia, figlio dell’Occidente cortese. Coraggio e saggezza, in giusta misura mischiati. Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra dei tesori d’oro, questo sarebbe un mondo più lieto. Ma triste o lieto ora debbo lasciarlo. Addio!». In due righe concentrata una delle “morali” di tutta l’opera tolkieniana: il mondo può ri-diventare “cortese” e lieto, se solo si facesse spazio a quelle risorse di coraggio e saggezza che esistono nel profondo del cuore dell’uomo e che gli uomini umani tirano fuori spesso solo nei momenti estremi.
Il lettore dei romanzi di Tolkien compie lo stesso viaggio degli Hobbit (sono loro il “veicolo”, il formidabile “mezzo di trasporto” della fantasia creativa tolkieniana) e si scopre, sorprendendosi, di essere diventato “di più” di quello che era all’inizio del viaggio-lettura. Se ci si lascia guidare da queste piccole guide, si entra nella profondità del proprio mistero e si può scoprire che c’è qualcosa di più grande che ci attende, un destino più splendente dell’oro e più forte della cupidigia.
I piccoli, umili e tenaci Hobbit sono forse i più grandi personaggi letterari del ‘900, la vera risposta al cupo secolo che ci siamo lasciati alle spalle, perché i più capaci a risollevare l’antica virtù della speranza. Lo esprime bene Michael Tolkien, figlio dello scrittore, quando ha risposo alla domanda sul successo del padre: «Almeno per me non c’è nulla di misterioso nell’entità del successo toccato a mio padre, il cui genio non ha fatto che rispondere all’invocazione di persone di ogni età e carattere, stanche e nauseate dalla bruttezza, dall’instabilità, dai valori d’accatto, dalle filosofie spicciole che sono stati spacciati loro come tristi sostituti della bellezza, del senso del mistero, dell’esaltazione, dell’avventura, dell’eroismo e della gioia, cose senza le quali l’anima stessa dell’uomo inaridisce e muore dentro di lui».