Anche a un profano dell’economia e delle sue implicazioni socio-politiche non mancano informazioni sufficienti per affermar che, a partire dalla prima metà degli anni Novanta, tutti i sistemi di welfare europei hanno dovuto confrontarsi con la trasformazione, profonda e a volte tumultuosa, dei rispettivi contesti sociali. Ciò è avvenuto sotto la spinta di fenomeni complessi, di natura esogena (legati alla dinamica di globalizzazione economica e sociale, all’emergere di problemi connessi al “meticciato di civiltà”) o endogena (legati soprattutto all’invecchiamento della popolazione e alla modificazione dei sistemi occupazionali ).
La risposta è consistita in un’azione di “ricalibratura” ma, in realtà, ora si vede bene che la situazione domanda un vero e proprio cambio di paradigma. È richiesta una modificazione profonda dell’assetto normativo che regola le politiche sociali per fare spazio a nuovi modelli, pur senza rimettere in discussione i principi di solidarietà ed eguaglianza che hanno caratterizzato l’avvento dei sistemi di welfare state. In particolare non appare più pensabile la perfetta coincidenza fra politiche sociali e politiche pubbliche, dal momento che altri settori della società (gli attori di mercato, le famiglie, le organizzazioni del privato sociale), si stanno rivelando non di rado capaci di affrontare i nuovi bisogni in modo più efficace dello Stato.
Nell’alveo di questo ripensamento è nata l’idea di “welfare society” con le sue differenti modalità applicative orientate alla sussidiarietà. Le sue implicazioni sembrano investire, in modo differenziato, tutti i modelli di politiche sociali fin qui conosciuti, determinando un cambiamento che è già visibile in alcuni esperimenti soprattutto a livello regionale.
All’origine della proposta di una welfare society è individuabile l’ipotesi di un cambiamento nel concepire lo stato sociale sulla base del necessario passaggio da una concezione individualistica della cittadinanza a un visione personale-comunitaria di essa. Questa si fonda sul riconoscimento di un pluralismo sociale che si articola, a livello di sfera pubblica, attraverso il principio di sussidiarietà. Questa nuova modalità di cittadinanza nasce dall’associarsi dei cittadini mediante la creazione di corpi intermedi e di iniziative partecipate dal basso.
È evidente che tale ipotesi prende fisionomia da una svolta di tipo antropologico che comporta una decisiva conseguenza nella configurazioni delle relazioni tra lo Stato e la società. Nell’orizzonte di questa antropologia adeguata si snoda la proposta di sviluppo integrale, inteso come percorso realistico e virtuoso propria della Caritas in Veritate (soprattutto CV, 45).
L’odierna società post-secolare, tecnicamente plurale, ha sgombrato, senza volerlo il terreno da due tenaci dogmi moderni. La cosiddetta morte del soggetto conseguente al proclama di Nietzsche circa la morte di dio. In che modo? Tutti percepiamo che l’esaltazione atomistica dell’individuo chiamato a relazionarsi con le sole sue forze ad uno Stato leviatano (Hobbes) cui ha previamente devoluto passioni e diritti, ha favorito oggi la nascita di un nuovo soggetto collettivo ad opera della tecno-scienza.
In questo senso il soggetto non è affatto morto. Sulle ceneri del vecchio soggetto empirico è sorto un nuovo soggetto “tecnocratico” che rischia di rendere il primo (il soggetto empirico) ormai ridotto ad oggetto, una semplice protesi, una mera funzione di questo nuovo, inquietante soggetto collettivo. In questa prospettiva si è giunti a definire l’uomo con enfasi faustiana, “come il suo proprio esperimento” (Jongen).
Tuttavia su questo suolo, come avviene a primavera sui terreni abbandonati e pieni di detriti di città, i fili d’erba dell’esperienza umana elementare non cessano di spuntare di nuovo. Cosa dice questa esperienza? Dice – come affermava Karol Wojtyla – che le relazioni, e in modo particolare le relazioni primarie uomo-donna, individuo-comunità sono imprescindibili per la crescita del soggetto e per l’insorgere della sua autocoscienza. L’io è relazionale, comunionale. E lo mostra molto bene il senso della nascita la cui insostituibile decisività è ben suggerita da Holderlin nella poesia “Il Reno”: “Il più lo può la nascita ed il raggio di luce che al neonato va incontro”.
La nascita infatti non è solo un fatto biologico ma, come genialmente affermava Giovanni Paolo II, è anzitutto genealogia. Quindi non è solo inizio ma è soprattutto origine. Pronunciando le sue prime parole il bambino non fa altro che dare testimonianza alla promessa contenuta nelle relazioni primarie con il padre e con la madre che indicano l’origine che lo precede e lo inoltra nella vita. Non si dà autogenerazione.
La genealogia di Gesù con cui si apre il Vangelo di Matteo, esprime assai bene questo dinamismo che alla fine implica l’azione stessa del Dio creatore. Tra l’altro la dimenticanza del senso integrale della nascita come origine è alla radice del grave vuoto educativo che sta minando le odierne società multietniche. La catena delle generazioni rischia di spezzarsi per la fatica del “prendersi cura” attraverso la tradizione del significato del vivere.
La Caritas in Veritate ha di mira lo sviluppo integrale dell’uomo a partire da questa antropologia adeguata in cui la persona e la società sono viste a partire dall’origine, da ciò che precede il puro fare. Il fatto che la vita sia dono, affondi le radici in un’origine che la precede, finisce per investire tutte le attività umane compresa quella economica. Solo così si comprende il peso anche tecnico, riferito cioè alla “ragione economica”(CV, 32, 36), che viene dato alla gratuità. Senza di essa il “mercato non esplicita la sua funzione” (CV, 35). La Caritas in Veritate guarda in questo senso al mistero della Trinità come paradigma.
Romano Guardini affermava che, nella Trinità, l’Amore è comunanza di tutto fino all’identità dell’essenza e della vita ma, nello stesso tempo, è perfetta custodia di sé da parte della persona. Questi elementi ci parlano di una perfezione di unità e di comunità in Dio cui corrisponde la sua fecondità. Da qui una decisiva implicazione per la vita sociale: “La Trinità insegna che tutto proprio tutto potrebbe essere, e al massimo grado, comune, dovrebbe essere comune. Una cosa sola non dovrebbe esserlo e con ciò si contrappone alla dedizione il suo contrappeso: la personalità. Questa deve rimanere inviolata nella sua indipendenza. Il suo sacrificio non può essere né desiderato, né offerto, né accettato. Con questo atteggiamento (l’etica) essenziale di ogni comunità è chiaramente circoscritta. La dedizione deve essere permessa e offerta nel modo e nella misura giusta e imperfetta è quella comunità in cui nasconde se stesso e le sue cose all’altro. Ma il diritto alla personalità è sacro e inviolabile e deve rimanere inviolato: non appena è varcato questo confine, una comunità diventa subito contro natura, immorale, di qualsiasi tipo essa sia)” .
A partire da questa svolta antropologica e dalle sue implicazioni sociali, la nuova cittadinanza comporta un ripensamento della democrazia e soprattutto del ruolo dello stato. Questo è chiamato a specializzarsi in compiti di sussidio rispetto alla società civile e di garante delle regole del gioco per individui e soggetti sociali.
Si apre esattamente a questo livello il tema della sussidiarietà, concettualmente sviluppatosi all’interno della dottrina sociale cattolica, a partire dalla sua originaria tematizzazione all’interno dell’Enciclica Quadragesimo anno (1931) per arrivare alla recentissima ripresa della Caritas in Veritate. Proprio in quest’ultima enciclica Benedetto XVI ne fornisce una definizione che aiuta a coglierne le caratteristiche basilari: “Sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona attraverso l’autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità” (CV, 57). Si tratta dunque di un paradigma applicabile sin negli aspetti più specifici dell’agire sociale ed economico e che può giungere a criteri are il dibattito sull’assetto istituzionale ed europeo.
In consonanza con questa visione il lessico della sussidiarietà fa perno sulla coppia persona/dono e fiducia/comunità. Una concezione che rifonda personalisticamente (in modo pertanto relazionale) l’idea di Stato: non lo intende più come fattore unificante sovraordinato alla molteplicità di individui concepiti come atomi isolati bensì come fattore a servizio sussidiario del libero gioco associativo di persone e comunità. Queste non sono tese anzitutto a un utilitarismo interessato ma, e prima di tutto alla generazione di un bene comune. Ciò è decisivo per elaborare una nuova concezione di giustizia assai diversa da quella sottostante lo Stato hobbesiano.
La novità di Caritas in Veritate sta nel porsi dall’interno della “ragione economica” (CV 32, 36) per affermare che tale principio è applicabile anche al mercato: “Anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica” (CV, 58). Diventa così evidente che il principio di sussidiarietà si presta ad essere interpretato come elemento imprescindibile per il superamento delle storture della modernità.
Questa impostazione si traduce necessariamente in una profonda rilettura delle politiche sociali. Sono chiamate a sperimentare formule di partnership fra pubblico e privato in cui alla modalità regolativa di tipo gerarchico viene sostituita una regolazione reticolare capace di rispettare i differenti codici simbolici presenti nella società così come le diverse forme organizzative. In questa configurazione delle politiche sociali lo Stato e le pubbliche amministrazioni locali perdono il ruolo di gestori diretti dei servizi per acquistare uno specifico stile di governo.
Elemento portante di un approccio sussidiario alle politiche sociali è la crescente libertà di scelta della persona. Questa può essere ottenuta attraverso il sostegno diretto della domanda con i cosiddetti “titoli sociali” (in particolare i voucher), al fine di rendere più accessibile una più adeguata disponibilità di risorse utilizzabili sui “quasi mercati” dei servizi accreditati. In ottica sussidiaria, peraltro, la libera scelta non si configura all’interno di un quadro di riferimento atomistico e individualistico, ma al contrario diventa elemento fondamentale per istituire libertà e responsabilità alla persona vista nell’ambito delle sue relazioni costitutive.
Prime fra tutte sono da considerare quelle familiari (CV, 44). Proprio la famiglia dovrebbe dunque essere il soggetto autenticamente centrale nel nuovo welfare e a essa debbono essere riconosciuti diritti ulteriori rispetto a quelli individuali aprendo la strada innanzitutto a una autentica sussidiarietà fiscale che tenga conto e valorizzi le concrete responsabilità familiari assunte da ciascun nucleo.
La carità nella verità è “un’esigenza della stessa ragione economica”(CV, 36), che in se stessa implica il “principio di gratuità” e di “logica del dono come espressione della fraternità”. È importante allora notare che l’ambito proprio di un’economia di gratuità e di fraternità deve andare dalla società civile al mercato e allo Stato: “Oggi possiamo dire che la vita economica deve essere compresa come una realtà a più dimensioni: in tutte in diversa misura e con modalità specifiche, deve essere presente l’aspetto della reciprocità fraterna”(CV, 38).
I tre capisaldi della Dottrina sociale – dignità della persona, principio di solidarietà e principio di sussidiarietà – sono così rivisitati a partire da una forma concreta di democrazia economica. La gratuità non è più intesa come pura cosmesi della giustizia e del bene comune, senza i quali, tuttavia, non si può parlare né di carità né di verità. Benedetto XVI non lascia scampo: “Oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia” (CV, 38).