Spesso i cattolici sono stati accusati di nostalgie per una società e un mondo di valori trascorsi e ormai inapplicabili. La critica e la denuncia dei guasti e dei torti che il progresso ha pure comportato, li ha condannati come inguaribili tradizionalisti, almeno agli occhi di chi confonde il riferimento a una Tradizione con la rinuncia a fare i conti con il presente e con la sua problematicità.



Proprio il Novecento, il secolo nel quale l’impeto e le contraddizioni della modernità sono venuti all’acme e hanno spesso rasentato il collasso, ha mostrato invece figure significative di cattolici coinvolti nel loro tempo e impazienti di raccogliere integralmente le sfide dell’economia, della società, della politica, non solo per difendere un patrimonio di valori consolidato, ma per metterlo in gioco confrontandosi col nuovo, accettandolo nella sua sostanza e redimendolo nelle sue storture; per ricristianizzarlo non nel senso di stabilirvi costumi e dinamiche antiche, ma vivificandolo in senso religioso senza avvilirne i caratteri.



Questo desiderio suscitò l’amore per il Novecento di don Carlo Gnocchi, il sacerdote ambrosiano che ha attraversato i periodi cruciali del secolo partecipandovi con l’intensità della passione del credente che non teme e anzi desidera il contatto con il mondo, luogo della carità, incontrandolo nelle forme nuove di socialità che produce, nei suoi bisogni specifici, nell’ansiosa ricerca di senso che persiste anche nella moderna «civiltà della sufficienza».

La prossima beatificazione del prete dei mutilatini (innovatore nelle forme della carità e dell’assistenza nell’epoca del welfare state) ha stimolato l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove per due anni fu assistente ecclesiastico prima di darsi completamente alla “grande opera” della Pro Juventute, a promuovere un incontro di studio con a tema proprio il suo appello ad amare senza indugi un secolo che oggi appare segnato più dalle ombre che dalle luci.



 

Non che egli non ne vedesse avvilimenti, dolore e disperazione (visse sui campi di battaglia la tragedia della guerra, in Albania e poi in Russia), ma non ne disconobbe dinamismo, grandezza e ricchezza, e soprattutto sincerità e passione.

 

Al punto che – scriveva – se avesse potuto scegliere gli anni in cui vivere e lottare avrebbe scelto il Novecento «senza un istante di esitazione», accettando l’urgenza morale di espiarne il male, «oscura colpa» che ricadeva su tutti e dalla quale erano dipesi gli orrori della guerra, attraverso la carità. Seppe così essere uno di quegli «uomini apostolici» che il cardinale Schuster nel 1947 indicava come unici in grado di parlare e farsi intendere dal mondo, fra i quali elencava «preti di fede» come i santi Bosco, Guanella e Orione, la cui predica più efficace «era la loro stessa vita».

 

Non molti anni dopo riconosceva a don Gnocchi, a pochi mesi dalla morte, di averne emulato degnamente l’esempio. Sul rapporto fra la vita operosa del sacerdote e i suoi giorni si confronteranno venerdì 2 ottobre (Cripta dell’Aula Magna dell’Università Cattolica, ore 14:30) gli storici Edoardo Bressan, dell’Università di Macerata, autore del più recente e aggiornato lavoro biografico sul prete dei mutilatini, Stefano Baia Curioni, docente della Bocconi, e Daniele Bardelli, dell’Ateneo del Sacro Cuore.

 

L’incontro, intitolato "Amiamo di un amore geloso il nostro tempo. Don Carlo Gnocchi e il Novecento", sarà introdotto dal rettore Lorenzo Ornaghi e dal presidente della Pro Juventute monsignor Angelo Bazzari. Le riflessioni saranno concluse dall’assistente ecclesiastico generale monsignor Sergio Lanza.