Con un autorevole ed importante articolo che occupava l’intera apertura delle pagine culturali de “il Giornale” di lunedì 21, Mario Cervi ha posto un aut-aut alla polemica sulle celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia: se ritenete che il Risorgimento sia stato un disastro – questo il monito di Cervi – allora non celebratelo. Molto efficace anche il titolo che Cervi ha dato al suo articolo: «La patria della discordia». Il suo intervento arriva dopo quelli, decisamente più revisionisti, di Ugo Finetti (secondo cui «la storia d’Italia non inizia nel ‘61») e di Giordano Bruno Guerri, che poneva senza mezzi termini il dito sulla piaga: troppo sangue innocente fu versato dai «piemontesi» con la scusa di abbattere il «brigantaggio».



È dunque arrivato il momento di parlare di questo argomento, che va facendosi di giorno in giorno sempre più incandescente. Abbiamo chiesto un parere allo storico Luciano Garibaldi, a sua volta, moderatamente revisionista.

 

Qual è la sua opinione in merito alla querelle Cervi-Pellicciari sul Risorgimento?

Conosco personalmente e stimo moltissimo Angela Pellicciari, con cui abbiamo in comune l’editore. Non c’è dubbio che molti aspetti, molte vicende del Risorgimento siano «da riscrivere», e tuttavia non penso che tutto debba essere buttato nella pattumiera. C’è un Risorgimento da condannare (per esempio, il fanatismo anticattolico e la fissazione antipapalina di Garibaldi) e c’è un Risorgimento decisamente da custodire come un patrimonio nazionale, perché senza di esso – come ha ottimamente scritto Mario Cervi – l’Italia sarebbe ancora un’“espressione geografica”.



 

Quali ritiene siano i peggiori episodi del Risorgimento?

 

In primo luogo mi vengono in mente i mazziniani che mettevano le bombe nei commissariati di polizia. Una sorta di Brigate Rosse ante litteram. E poi, anche Cialdini e Lamarmora, con repressioni e rappresaglie, dagli Abruzzi in giù, non molto differenti da quelle di Reder e Kappler.

 

E un esempio di Risorgimento da celebrare?

 

Gli eroi di Solferino e San Martino, massacrati da croati in divisa austriaca, che spaccavano il cranio ai feriti piemontesi con palle di ferro piene di aghi acuminati. Tanto che là nacque la Croce Rossa Internazionale. Una di quelle vittime si chiamava Giovanni Battista Fenocchio ed era il fratello di mio trisnonno Domenico.



 

Torniamo alla Pellicciari. La storica sostiene che la Chiesa cattolica mai approvò la politica dei Savoia, ispirata dalla massoneria e dalla superpotenza inglese.

 

Questo è vero. Che fine avrebbero fatto i Mille senza la protezione delle navi di Sua Maestà britannica, che regnava non solo sull’Inghilterra e su mezzo mondo, ma anche sulla Gran Loggia di Londra, madre di tutte le massonerie? E tuttavia, è errato sostenere che la Chiesa – e in particolare Pio IX – fosse contraria all’unità d’Italia. Era ostile, per evidenti e ovvie ragioni, al fanatismo anticattolico dei massoni alla Mazzini e alla Garibaldi, ma non era affatto contraria all’unificazione del Paese. Non si dimentichi che nel Regno di Sardegna, che poi avrebbe unificato l’Italia, vi furono pensatori e politici come Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini che non escludevano addirittura l’ipotesi di attribuire al Papa la funzione di capo dello Stato. Uno Stato, ovviamente, federato.

 

Il famoso “Papa Re”.

 

Beh, queste erano, in un certo senso, le idee di Gioberti portate all’estremo. Anche perché al Papa non sarebbe mai interessato esercitare un potere effettivo sulla penisola. Ma risparmiarla dai conflitti civili, questo certamente sì.

 

Dunque, si può affermare che il Risorgimento fu anche una guerra civile?

 

Direi proprio di sì. Una delle non poche guerre civili che hanno contrassegnato la storia italiana degli ultimi duecento anni, a partire dalle insorgenze antinapoleoniche, proseguendo poi con la cosiddetta «guerra al brigantaggio», con la rivolta di Milano stroncata da Bava Beccaris, con lo scontro di Fiume, con il triennio 1919-1922 (fascisti contro comunisti), infine con la Resistenza 1943-45. Gli «anni di piombo» non ce li metto perché quella fu una guerra unilaterale. Non ci fu mai una vera reazione armata al piombo assassino dei brigatisti.

 

E allora perché manteniamo in vita soltanto l’Insmli, ovvero l’«Istituto per la storia del movimento di liberazione in Italia»? Non sarebbe meglio trasformarlo in Istituto per la storia delle guerre civili in Italia?

 

Sono anni che lo sostengo. Un governo che avesse davvero a cuore la diffusione, specie tra le giovani generazioni, di una storia condivisa, dovrebbe muoversi in questa direzione: mantenendo ovviamente in atto le strutture dell’Insmli (intendo dire personale, impiegati, eccetera), ma affidandone la cura a storici assolutamente super partes, e ampliandone le competenze incaricandolo dello studio di tutte le guerre civili che hanno visto italiani contro italiani. La storia, quella vera, quella seria, si fa così.

 

Cioè, portando alla ribalta le luci ma anche le ombre.

 

Esattamente. Mi si perdoni l’autocitazione: io ho raccontato, in numerosi miei libri, le luci della Resistenza, ossia il valore della lotta dei soldati e dei partigiani italiani contro i nazisti. E mi limito a citare la biografia di Edgardo Sogno e la storia degli IILO’s, gli «Italian Intelligence Liaison Officers» che combatterono a fianco degli inglesi nell’8.a Armata.