Non si può che essere grati alla piccola ma coraggiosa casa editrice Cantagalli di Siena per aver pubblicato, dopo un lungo periodo di voluta censura da parte di altre e più consolidate case editrici cattoliche, il bel libro di Martin Mosebach, Eresia dell’informe. La liturgia romana e il suo nemico, duecentocinqua pagine che si leggono d’un fiato, per diciassette euro, spesi benissimo. Merito, certamente, anche dell’accurata edizione in lingua italiana, curata da Leonardo Allodi. Un solo, piccolissimo rilievo iniziale: l’edizione italiana è stata condotta su quella tedesca del 2007, cosa molto corretta sul piano editoriale, ma forse al lettore italiano può sfuggire che la prima edizione originale è del 2002, data che non è indicata e che ha una sua importanza. Non è filologismo. La distanza cronologica tra l’edizione italiana e la prima edizione tedesca testimonia la censura che su questo volume è stata stesa da un certo establishment editoriale cattolico e, dunque, il suo estremo interesse. Questo, infatti, è uno di quei libri che fanno davvero riflettere, nati dal coraggio di pensare, ma anche dalla gratitudine e dallo stupore. Né si dimentichi che questo era accaduto persino a certe pagine dell’allora cardinal Ratzinger dedicate al medesimo argomento di cui tratta questo libro: la liturgia.



Martin Mosebach, in ogni caso, non è un liturgista di professione e, nel corso della sua opera, più volte ripete di non essere nemmeno teologo. Un po’ come certi poeti, che di se stessi dicono di non essere poeti, che è poi una delle forme più alte di poesia. Mosebach, in effetti, è soprattutto un grande romanziere e novelliere, nato a Francoforte sul Meno nel 1951, ma particolarmente legato all’Italia, come spesso accade ed è accaduto al fiore degli intellettuali tedeschi, quelli più autentici e più critici nei confronti della cultura dominante e, proprio per questo, meno graditi al proprio tempo. A Mosebach, tuttavia, non sono mancati dei pubblici riconoscimenti tra cui, in particolare, il prestigioso premio letterario Büchner, il Nobel della letteratura tedesca, conferitogli nel 2007, con grande ira della cricca progressista e politicamente corretta che governa la cultura tedesca (e quella europea). Vuol dire che, malgrado tutto, qualche volta i premi letterari ci azzeccano.



Che, poi, Mosebach sia un grande narratore, lo si vede anche da questo saggio, che ha come tema principale la crisi della liturgia cattolica dopo il concilio Vaticano II. Si dovrebbe dire la crisi della liturgia della Chiesa latina, perché, come forse non è noto, i cattolici orientali non hanno introdotto variazioni nella loro prassi liturgica negli anni successivi al Concilio, ma oggi, ben pochi usano ancora parlare di Chiesa latina per indicare la molteplicità di chiese nazionali legate alla tradizione liturgica della Chiesa di Roma. Detto questo, spazziamo subito via un equivoco e ricordiamo che Mosebach non è un tradizionalista negatore del concilio Vaticano II che, come può verificare chiunque, nella Sacrosanctum Concilium non solo non ha affatto abolito l’antica liturgia romana, ma ne ha ribadito il valore, quanto alla lingua sacra, il latino, e quanto alla sostanza teologica.



Questo volume è, appunto, un saggio, ma con pagine che risultano narrate e quasi parlate, innovativo, dunque, nella forma, che riesce ad andare al di là della trattatistica convenzionale, e nei contenuti. Il tema centrale è dunque la crisi che ha investito la liturgia latina a partire dalla riforma liturgica di papa Paolo VI. La critica che percorre tutta l’opera va contro ciò è ormai molti studiosi chiamano l’ideologia postconciliare, che è altra cosa dal Concilio come tale e che ha come presupposto sostanziale la cosiddetta ermeneutica della rottura. È da questo fronte, non a caso, che è scaturita la censura a posizioni intelligenti e storicamente coerenti come quella di Mosebach. Sul piano liturgico, e su quello collaterale della musica sacra e dell’architettura, l’assenza di forma, la Formlosigkeit, è la spaccatura tra forma e contenuto introdottasi nel modo di pensare la riforma liturgica postconciliare.

 

La liturgia è questione di salvezza e la forma della liturgia è Cristo stesso, così come ci è stato comunicato e tramandato nella Chiesa, che è una nel presente e nel passato in forza della comunione dei santi. Mosebach non è un tradizionalista, nel senso negativo oggi attribuito a questo termine, perché non nega affatto che «si possa celebrare degnamente e con riverenza anche la nuova liturgia di papa Paolo VI» (45), ma evidenzia come proprio il fatto che se ne parli come di una possibilità costituisce un argomento ad essa contrario «nel momento in cui per la sua celebrazione diventa necessario un bravo e devoto sacerdote». È un rilievo che Mosebach condivide con un testimone di eccezione: «Rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l’impressione che questo fosse del tutto normale. Il messale precedente era stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo seguito al concilio di Trento; era quindi normale che, dopo quattrocento anni e un nuovo Concilio, un nuovo papa pubblicasse un nuovo messale. Ma la verità storica è un’altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli. Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato questo messale, senza mai contrapporre un messale a un altro. […] Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell’antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. […] si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l’edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti. […] In questo modo si è sviluppata l’impressione che la liturgia sia “fatta”, che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di “donato”, ma che dipenda dalle nostre decisioni» (Joseph Ratzinger, La mia vita).

L’idea di liturgia come dono e come mistero, che caratterizza la teologia liturgica di Ratzinger, ha molto in comune con l’idea di forma liturgica sostenuta e difesa da Mosebach. Quanto al problema – teologico e dogmatico – della continuità, è stata proprio la sua chiara percezione a spingere papa Giovanni Paolo II, prima, a promulgare l’indulto che rendeva possibile l’uso dell’antico messale, previa autorizzazione del vescovo, e papa Benedetto XVI, poi, a liberalizzare completamente il suo uso, anche senza l’autorizzazione del vescovo, con il Motu proprio Summorum pontificum, del 7 luglio 2007. Le patene portate in fonderia, le tovaglie arcobaleno buttate sulla tavola della celebrazione, i canti orrendi e spesso eretici (“sei grande Dio sei grande come il mondo mio”), le invenzioni continue a cui siamo costretti ad assistere in certe messe domenicali, la sopravvalutazione della predica e della parola rispetto alla dimensione sacramentale, gli orrori e le devastazioni architettoniche degli edifici ecclesiastici sono conseguenza diretta di questa rottura della tradizione e sono la manifestazione evidente dell’«assenza di forma». «Alle numerosi ondate di distruzione che nella storia del nostro Paese si sono abbattute sui nostri santuari – la riforma, la secolarizzazione [napoleonica] con le sue centinaia di migliaia di profanazioni – ne è seguita una più recente, assolutamente degna dei suoi predecessori per forza distruttiva» (59). Quella che stiamo vivendo per Mosebach è una crisi iconoclasta che mette in qualche modo e in gradi diversi in dubbio il dogma centrale dell’Incarnazione e, dunque, della visibilità e rappresentabilità del Mistero nella storia. La Tradizione, in senso teologico, non ammette soluzione di continuità.

 

 

C’è da commuoversi quando Mosebach racconta nel suo volume di come abbia scoperto la bellezza nascosta di questa tradizione e di come essa gli abbia restituito la fede. «Non sono né un convertito né un proselito», dice di se stesso proprio al principio del saggio, ma lentamente le radici atrofizzate e dormienti della fede hanno in lui ripreso vigore ed è stato, come per molti, «l’incontro con l’antica liturgia cattolica ad aver generato un processo che non è ancora giunto alla fine» (27). Viene in mente Claudel che si converte entrando a Nôtre Dame, stupito dalla bellezza della liturgia che vi veniva celebrata. È l’affermazione di questa domanda di salvezza presente, di bellezze e verità come unità profonda, a vaccinare la posizione di Mosebach da ogni rischio di estetismo.

Questo libro è dunque anche una testimonianza, di come la Tradizione nella Chiesa cristiana sia la strada che può portare sino al principio, alla Forma che dà senso e bellezza alla vita e alle opere dei cristiani; ed è certamente anche un grido, sbigottito come quello del cardinal Ratzinger, di fronte al dramma che ha investito la Chiesa e, dunque, il mondo.

Ma questo libro è anche un viaggio, che ci porta a incontrare luoghi in cui l’antica liturgia è viva l’antico si mostra in tutto il suo splendore contro una febbre di novità che è già vecchia nel momento in cui nasce: il monastero benedettino di Fontgombault, continuatore della gloria di Solesmes; l’umile cappellina ricavata nei locali di un appartamento di Francoforte, dove un sacerdote celebra in quasi clandestinità la Messa tridentina secondo l’indulto di papa Giovanni Paolo II e dove le donne presenti, senza nemmeno saperlo, riscoprono l’antica reverenza verso gli oggetti sacri e, con essa, il valore di una sacralità così vicina al quotidiano. La madre di famiglia che lava con cura il purificatoio con cui il sacerdote ha pulito il calice e che ha raccolto qualche piccola goccia del sangue di Cristo, rovesciando poi quell’acqua nell’angolo del suo giardinetto dove spuntano i fiori più belli, con questo semplice suo gesto riafferma il valore totale e assoluto della transustanziazione, sine glossa, senza condizionamenti e travisamenti che non sono poi che adattamenti allo spirito del nostro tempo. Cristo è il giudice del tempo, non è ne è il suddito. E proprio per questo – paradossale motivo di speranza – può anche esserci, e c’è, l’«ubbidienza disubbidiente» di tanti sacerdoti che riscoprono la continuità della Tradizione, magari, contro le opposizioni aperte o subdole dei loro vescovi al Motu proprio di papa Benedetto XVI. È l’ubbidienza disubbidiente che già fu di sant’Atanasio, il coraggioso vescovo che si oppose all’arianesimo ormai accettato da gran parte dei suoi confratelli nell’episcopato. Mosebach quest’ultimo esempio non lo fa, è troppo umile, troppo legato alla presentazione della situazione presente. Ma è un esempio che balza alla mente a chi ha affrontato lo studio delle grandi crisi attraversate dalla Chiesa nella sua storia.

La lex credendi è la lex orandi. Se cade l’una, cade anche l’altra. Si crede quel che si prega e si prega quel che si crede. Non si prega che in ginocchio, scrive Mosebach, e, allo stesso modo, non si crede che in ginocchio, perché chi entra in chiesa cerca il mistero, il sacro; non l’orizzontalità in cui siamo già immersi, ma la verticalità capace di ridare significato a quest’ultima. Dopo anni di ubriacatura comunitaria si torna a parlare di mistero e, per dirla con Guardini, di “santi segni”.

È velato il mistero della liturgia. Sin dal suo principio è un continuo velarsi, tant’è che i suoi riti iniziano «con la copertura del celebrante rivestito con diverse vesti che, insieme, hanno un carattere simbolico», in cui «diventa chiaro che le qualità del carattere e virtù come la castità, la fortezza e l’umiltà, associate con brevi preghiere ai singoli capi di abbigliamento, vengono realmente accolte come parti dell’armatura, di cui parla san Paolo» (147). Ma questo velarsi, tanto misterioso, è altra cosa dal misticismo misterico: «un razionalismo particolarmente sobrio attraversa la letteratura liturgica occidentale, un non-voler-sapere particolarmente accentuato di quale sia la relazione tra la singola norma liturgica e la storia delle religioni». «Non c’è nulla che la Chiesa cattolica tema di più quanto l’essere associata nei suoi riti, alla magia e alla prassi» magica» (163). È velato questo mistero, di un velo che non è stato posto da mani d’uomo, perché «l’offerta velata è Cristo prima della Crocifissione, non ancora sacrificato, non ancora segno di contraddizione sollevato in alto, essa è anche Cristo velato che attende di essere spogliato dei suoi vestiti». In questo velarsi e disvelarsi il Mistero si fa presente ed è un mistero di kenosi, di annichilimento nell’abbandono. Forse la tragedia che ha investito la Chiesa latina in questo lungo autunno è parte di questa kenosi, forse si tratta di una grande prova di fede. All’inizio del suo libro Mosebach constata con amarezza che la riforma liturgica ha già sortito un effetto nel momento in cui ci costringe a parlare di liturgia, a discuterla come se fossimo noi a decidere di essa, ma, almeno, forse, questa amarezza può, se lo desideriamo autenticamente, divenire consapevolezza e libera scelta di cercare e riabbandonarci al Mistero.