Forse per l’asprezza della sua polemica contro l’idealismo di Croce e Gentile, contro la poesia di Saba-Ungaretti-Montale, contro un cattolicesimo esangue, forse per la scelta stessa di esprimersi non in italiano, ma in una lingua sua, come al loro tempo avevano fatto Dante, Petrarca e Boccaccio, la fortuna critica non ha arriso presto a Giacomo Noventa (1898-1960), pseudonimo di Giacomo Ca’ Zorzi.
Una vita errabonda, dopo la prima guerra mondiale combattuta come volontario, lo porta in giro per le capitali d’Europa alla ricerca di orizzonti che sfondino la cultura italiana ingessata dal consolidarsi del fascismo. Fino al 1934 rifiuta di trascrivere i versi in dialetto che recita agli amici Soldati, Debenedetti, Levi, Carocci, affermando perentoriamente che “scrivere è decadere”.
Solo tardi dunque la sua opera poetica è stata divulgata al di là della stretta cerchia degli amici, dopo che la produzione saggistica sulla rivista “Solaria” prima e in seguito la collaborazione a varie riviste di ispirazione socialista e democratica tra il 1948 e il 1954 riconciliano Noventa con l’atto dello scrivere e ne fanno conoscere il pensiero teorico.
Le insistenze di Pampaloni e di Fortini ottengono la pubblicazione del suo primo volume di poesie, che vince il Premio Viareggio nel 1956. Egli aveva aspettato a lungo, come chi sa di aver da dire qualcosa di importante: «Chi vuol essere folgore, sia a lungo nube», si ripeteva.
Il nucleo della poetica noventiana sta nel recupero di una poesia classica, cioè nemica di ogni individualismo e cattolica, ovvero nemica di ogni particolarismo, che sappia parlare al cuore dei “picoli” di quelle cose che i poeti italiani, nel loro linguaggio aristocratico, non sono più capaci di dire: “amore cuore dio giustizia”. Solo l’espressione dialettale può restituire alle parole la loro pregnanza, ma anch’esse rimangono al di qua di un limite non superabile. Nemmeno la poesia può dire totalmente la verità che tutti gli uomini ricercano:
Quando Dio lezerà nel gran libro,
E nei nostri libreti,
Quel, che par esser fati a so imagine,
E prisonieri del tempo,
Se gà vùo da penar,
Dio, tuti, el ne graziarà.
Ma tuttavia i poeti servono, come dice questa lieve rievocazione della vita militare:
Co se gera soldai dentro in trincea,
O a riposo o marciando o a l’ospeal,
E i compagni più veci ne diceva,
E parlasseli pur del so paese,
Dei campi e del lavoro lassài là,
Una storia d’amor,
Gerimo in tanti a no’ saver ancora
Quel che fusse una dona, e se ascoltava,
Se inventavamo un nome, e se moriva,
(Se imparava a morir…)
Ancuo legendo, come i fusse vivi,
In Giacomo, in Francesco, in Dante e in altri
Cari poeti, o nostrani o foresti,
Me xè vignùo un pensier:
Che noialtri se sia come i coscriti
In una guera granda, e che i poeti
Sia come quei soldai che ne diceva,
E parlasseli pur del so paese,
Dei campi e dei lavori lassài là,
Una storia d’amor.