Il cancelliere tedesco Angela Merkel, commemorando qualche giorno fa vicino a Danzica fa l’inizio della Seconda guerra Mondiale, ha dichiarato «Tutti sappiamo che agli orrori della Seconda Guerra Mondiale non c’è rimedio. Le cicatrici resteranno per sempre. Ma la nostra missione consiste nel plasmare il futuro, nella consapevolezza di un’eterna responsabilità». La dichiarazione della Merkel segue una traccia consistente nella politica tedesca, aperta da Willy Brandt nel 1970. Come scrisse Enzo Biagi, testimone oculare dell’evento: «È il 7 dicembre. Brandt va nella piazza in cui tra le grigie case popolari, sorge il monumento agli eroi del ghetto ebreo, e si inginocchia chinando il capo. È in quel momento, il cancelliere che assume su di sé la colpa d’un passato di cui non è colpevole».
Responsabilità eterna, assumersi la colpa di un evento di cui non si è personalmente colpevoli (Brandt era antinazista da prima del ’33 e passò gli anni del potere di Hitler a fuggire e a combattere il regime da lontano; Angela Merkel è nata nel ’54): al di là della cronaca politica, è questo l’aspetto più significativo dei gesti e delle parole di cui stiamo parlando.
In primo luogo è chiaro che non vi sono colpe eterne. Non solo non vi è nulla di eterno sulla terra e anche dei crimini più orribili si perde il ricordo o almeno il suo impatto emotivo si smorza col tempo. Ma soprattutto la colpa è sempre solo personale, almeno per la nostra concezione del mondo secondo cui ciascuno è libero nei suoi atti, dunque non vi può essere colpa per gli orrori commessi dagli antenati. Rimorso magari sì, dispiacere, tormento nel vedere l’orrore commesso da chi nei confronti dei suoi figli e nipoti è stato magari tenero e dolce – questo fenomeno è stato largamente testimoniato nella società tedesca, almeno a partire dagli anni Sessanta, ma non colpa.
E però è Biagi, con la concretezza del giornalista a evocare la colpa, sia pur solo per negarla. Merkel dice una cosa diversa, parla di responsabilità eterna, cioè – se non vi è nulla di umano che sia davvero eterno – almeno ancora viva e continuamente alimentata, seppur di fronte all’irrevocabilità dei crimini commessi durante la guerra, che sembrerebbe renderla fattualmente. E se la colpa non può che essere personale, questo non vale per la responsabilità. Responsabilità, etimologicamente e moralmente, è il dovere di rispondere di ciò che è stato fatto.
Se vogliamo andare alla fonte della nozione di responsabilità, dobbiamo ricorrere a un antico testo biblico, quello del testo della Genesi in cui si parla della cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden. Nella Bibbia Adamo è chiamato a rispondere dopo la disobbedienza al divieto di mangiare il frutto del bene e del male. Ma la domanda divina non è «che cosa hai fatto?» oppure «sei stato tu?», ma «dove sei?». Dando per scontato un contesto teologico in cui tutte queste domande devono aver già risposta nel sapere divino e sono dunque informativamente superflue, la terza, quella del testo potrebbe sembrare particolarmente insensata, almeno se chiedesse solo la collocazione fisica di Adamo. Essa però si deve leggere in maniera comunicativa e non informativa, rivolta alla coscienza di Adamo e con un senso più ampio, metaforico e morale: «Tu, Adamo, dove ti collochi, rispetto a quel che è successo? A che punto sei ora nel processo della tua vita?».
Responsabilità è dunque sempre un mettersi in questione rispetto a un percorso, l’assumere esplicitamente un punto di vista rispetto a ciò che è accaduto e che sta accadendo vicino a noi. Per questo la responsabilità può essere spesso collettiva, anche se la colpa è sempre solo individuale. Noi tutti siamo responsabili di ciò che avviene nel nostro ambiente, perché ci riguarda (guarda verso di noi e richiede che lo sguardo sia ricambiato) e ci interessa (ci tiene in mezzo al suo essere, ci prende e ci trascina).
È difficile negare una responsabilità collettiva del popolo tedesco per la Shoà e gli altri crimini della Seconda Guerra Mondiale. La Shoà non fu realizzata né dalla “pazzia” di un uomo, né dall’azione criminale di pochi scellerati, e neppure solo dall’anonima “banalità del male” di un apparato burocratico efficiente, come pensava Hannah Arendt. Ci fu nella nazione tedesca un consenso collettivo, un’abbondanza di “volonterosi carnefici” (per citare il titolo di un libro particolarmente duro e documentato di Daniel Goldhagen). Questo consenso per molti (anche ebrei) fu una sorpresa terribilmente dolorosa, perché la Germania era considerata allora “il paese più civile del mondo”, quello dalla cultura superiore e dall’umanità più ricca e coltivata. Proprio questa sorpresa chiede spiegazioni: com’è potuto accadere che proprio la Germania abbia espresso una tale criminale ferocia, abbia potuto costruire Auschwitz e continuare a tormentare a morte ebrei e altri deportati fino agli ultimi giorni, quando la guerra era persa?
E, bisogna aggiungere, com’è possibile che nel dopoguerra proprio quelli che si consideravano più estranei e nemici del nazismo, i giovani della sinistra estrema, si siano schierati in un campo diversamente antisemita, appoggiando le stragi del terrorismo palestinese, l’uccisione degli atleti israeliani alle Olimpiadi di monaco, il dirottamento di Entebbe e diventando magari neonazisti come Horst Mahler, ex avvocato ultrasinistro dei Baader/Meinhof?
Insomma la responsabilità del popolo tedesco oggi per quel che è accaduto settant’anni fa non è solo teorica, ha a che fare con il rischio concreto che certi atteggiamenti possano riprodursi, magari travestiti a sinistra, come sta accadendo in mezz’Europa, se non proprio gli stessi avvenimenti ritornare. Per questa ragione il riconoscimento di una “responsabilità eterna” da parte dei cancellieri tedeschi non è un’astratta questione morale, ma un impegno politico preciso.
Dobbiamo confrontare questa assunzione di responsabilità con coloro che ignorano o negano responsabilità nello stesso processo (la Polonia e i paesi baltici per l’attiva collaborazione che prestarono alla Shoà e per le persecuzioni antiebraiche dopo la fine della guerra: si legga a questo proposito quella terribile testimonianza che è Il pogrom di Adam Michnik); ma anche con la dimenticanza che in Italia regna intorno alle stragi fasciste in Jugoslavia, Albania, Libia; al silenzio belga e francese sul genocidio del Ruanda, e ancor di più con l’attivo negazionismo governativo e sociale con cui la Turchia cerca invano di cancellare le tracce del genocidio contro gli Armeni, commesso settant’anni fa.
Assumersi una “responsabilità eterna”, insomma, significa evitare di nascondersi dietro il fatto che colpevoli e vittime sono tutti morti o lo saranno fra breve e interrogarsi attivamente sulle radici sociali, culturali oltreché politiche che hanno condotto all’orrore, per evitare che rispuntino e possano produrre altri frutti avvelenati. Questo compito che la Germania, o almeno le sue forze politiche e culturali dominanti, hanno preso con grande serietà è il solo percorso per evitare quel che Sigmund Freud, un ebreo che conobbe di persona la violenza nazista, chiamava «il ritorno del rimosso».