Nei saggi raccolti nel volume Elogio della coscienza Cantagalli 2009, Benedetto XVI pratica la concezione della razionalità “allargata” che ha esaltato a Ratisbona. La caratteristica più determinante del suo pensiero è l’intelligenza, l’acume, l’intellectus (secondo Tommaso da intus-legere, leggere dentro), l’in-sight (vedere dentro), l’intelligenza dei principi. Potremmo parlare anche di esprit de finesse. Egli sembra suggerire che se si parte male, se non si azzeccano i principi, le evidenze prime, puoi anche ragionare bene, ma si finisce male, nell’errore teoretico e morale. La ragione non è solo né soprattutto la razionalità del calcolatore che inferisce correttamente, ma non è in grado di cogliere i principi. La ragione è innanzitutto intelligenza, capacità di cogliere i principi, di aprirsi alla realtà. Questo è il primo insegnamento per i filosofi e per tutti: aprire gli occhi, attenzione alle evidenze prime che si manifestano nell’esperienza.
Attenzione ai principi significa in questo volume difesa dell’autentico significato di coscienza. Ma ciò non significa innanzitutto, come s’intende per lo più oggi, assolutizzare la libertà di scelta. Significa, invece, difesa della capacità della coscienza di aprirsi all’essere, alla verità e al bene e in ultima analisi alla “Verità” e al “Bene”, cioè a Dio. La coscienza è «originaria memoria del bene e del vero. C’è una tendenza intima dell’essere dell’uomo, fatto a immagine di Dio, verso quanto a Dio è conforme. V’è nell’uomo un dato, la coscienza e le sue evidenze, non posto da lui, ma che da lui dev’essere riconosciuto ed esercitato che gli permette di giudicare il bene e il male. Fin dalla sua radice l’essere dell’uomo avverte un’armonia con alcune cose e si trova in contraddizione con altre» (p. 24).
Il cuore della Bibbia diventa l’anamnesi o memoria di Agostino, la conscientia e, soprattutto, la sinderesi o intelletto dei primi principi pratici di Tommaso e la conscience di John Henry Newman nella lettera al Duca di Norfolk ripresa dal papa. In questo scritto Newman comincia – non a caso – citando la definizione di Tommaso d’Aquino di legge naturale come «un’impressione in noi della Luce Divina, una partecipazione della legge eterna nella creatura razionale». L’umana consapevolezza di questa legge, per quanto difettosa in taluni individui, è ciò che Newman definisce coscienza. Egli sottolinea che «la coscienza è l’originario Vicario di Cristo, profeta nelle informazioni, monarca nella perentorietà, sacerdote nelle benedizioni e negli anatemi, e, anche se il sacerdozio eterno attraverso la Chiesa cessasse di esistere, in essa il principio sacerdotale rimarrebbe e avrebbe autorità». Per Newman è sul carattere sacro della coscienza che si fonda anche l’autorità del papa. Egli, custode della rivelazione, deve rispettare la natura e la coscienza, perché la Grazia non può contraddire la natura.
Nella prospettiva di Agostino, Tommaso, Newman e di Benedetto XVI si valorizza l’armonia fra l’uomo e la realtà, fra la coscienza e la realtà. Si tratta di un’armonia (convenientia) fra razionalità – affettività, da una parte, e realtà conosciuta e oggetto di attrazione-repulsione dall’altra. Questa armonia permette di giudicare il bene e il male. Ma occorre esercitare il giudizio della coscienza. Importante oggi è sottolineare che la dimensione della morale, della coscienza non è cieca, non si limita a postulare o a “gridare nel vuoto”, come per gran parte del pensiero moderno e contemporaneo a partire da Kant, ma intelligit, intende, conosce. Si tratta di quello che accade nel dialogo fra due persone quando la nostra coscienza e la nostra ragione reagiscono e giudicano alle espressioni del volto e alle parole altrui. Qui, nella concreta esperienza, razionalità pratica che dirige l’azione e razionalità speculativa che conosce sono intimamente connesse.
Nella società secolarizzata – osserva Newman – la coscienza, questo “severo assistente” è stato sostituito da un “surrogato”, ovvero «il diritto di pensare, parlare, scrivere, agire secondo il proprio giudizio o il proprio umore, senza darsi pensiero di Dio», in altre parole da nient’altro che “il diritto della volontà”. Allora la coscienza diventa semplicemente «il diritto assoluto e la libertà di coscienza di dispensarsi dalla coscienza». Ma senza l’esercizio del giudizio della coscienza l’uomo smarrisce la sua unità nel tempo, il senso di una storia personale e si frammenta. Come nota il filosofo Charles Taylor, non c’è autenticità, possibilità di essere se stessi, di essere veramente autentici e originali (istanza contemporanea), senza apertura della coscienza alla verità e al bene, senza unificazione dell’io.
Il volume è un invito ad una riscossa della coscienza e del giudizio. Esso riguarda tutti, cristiani e non, contro il rischio della massificazione, di un mero proceduralismo che tutto annacqua e annebbia, della perdita della fiducia di poter attingere la verità e il bene, di essere abilitati alla verità e al bene e, quindi, di poter essere liberi. Senza l’esercizio del giudizio della coscienza l’uomo diventa inevitabilmente schiavo del potere della maggioranza, del mito del progresso senza direzione (per Agostino del saeculum) che oggi si sposa con una certa lettura ideologica della teoria dell’evoluzione: «l’uomo d’oggi vede in se stesso il grande distruttore del mondo, un prodotto infelice dell’evoluzione. E, in realtà, l’uomo che non ha più accesso all’infinito, a Dio, è un essere contraddittorio, un prodotto fallito. Qui appare la logica del peccato: l’uomo volendo essere come Dio, cerca l’indipendenza assoluta. Per essere autosufficiente, deve diventare indipendente, deve emanciparsi anche dall’amore, che è sempre grazia libera, non producibile e fattibile. Però, facendosi indipendente dall’amore, l’uomo si è separato dalla vera ricchezza del suo essere, è divenuto vuoto e l’opposizione contro il proprio essere diventa inevitabile. “Non è bene essere un uomo”» (pp. 46-47).
Così pure «la nozione di verità viene risospinta nel dominio dell’intolleranza e di quanto è profondamente anti-democratico la nozione moderna di democrazia sembra essere indissolubilmente legata all’opzione relativista».
La ragione che vuole prestare ascolto solo a se stessa, «recise le sue radici nella fede vissuta di una cultura e di una civiltà storica intimamente religiose, e volendo essere più solo ragione empirica, diventò invece “ragione cieca”. Là dove non viene più riconosciuto come certezza comune altro se non ciò che è sperimentalmente verificabile, per le verità che eccedono la sfera puramente materiale non rimane altro parametro di riferimento che la loro mera strumentalità, cioè l’essere funzione del gioco di maggioranze e minoranze» (p. 68). Tuttavia – sottolinea il Papa – non c’è democrazia senza coscienza: «Un fondamento di verità, di verità in senso morale appare irrinunciabile per la stessa sopravvivenza della democrazia» (p. 53). La democrazia non si può fondare solo su delle procedure. Come nota un liberale come Ronald Dworkin, «la fuga dalla sostanza deve finire nella sostanza. Questioni di natura sostanziale sono inevitabili perché spetta sempre alla ragione umana indagare il bene sostanziale della procedura, per non parlare dei beni sostanziali che mediante le procedure vengono ottenuti». La ragione procedurale non basta. Occorre l’esercizio della razionalità pratica, della coscienza che riconosce il bene e il vero. In altri termini: la società politica presuppone che determinati valori fondanti quali la dignità della persona siano riconosciuti come naturali e costitutivi e non come frutto di convenzione e di procedure: «I diritti umani non stanno in subordine all’imperativo della tolleranza e a quello del pluralismo: essi sono il contenuto della tolleranza e della libertà. Derubare l’altro dei suoi diritti non può mai diventare legittima materia di statuizione positiva e meno che mai essere contenuto della libertà» (p. 52).
Nel generale clima nichilistico «l’individuo non può pagare il suo avanzamento, il suo benessere, a prezzo di un tradimento della verità riconosciuta: neppure l’umanità intera può farlo. Tocchiamo qui il punto veramente critico della modernità: l’idea di verità è stata nella pratica eliminata e sostituita con quella di progresso. Il progresso stesso è la verità. Tuttavia in quest’apparente esaltazione esso diventa privo di direzione e si vanifica da solo. Infatti, se non c’è nessuna direzione, tutto quanto può essere altrettanto bene progresso quanto regresso» (p. 19). Si è passati, così, dall’affermazione della verità, al progresso con direzione (le grandi ideologie secolaristiche e ottimistiche), al progresso senza direzione nichilistico: tutto va bene, basta andare da qualche parte. Ma la verità non è prodotto della politica: «tutte le volte che i relativisti ne sono invece convinti, essi finiscono in verità per cadere in una qualche forma di totalitarismo nonostante a parole affermino di battersi per il primato della libertà. La maggioranza diviene allora una specie di divinità, contro la quale non è ammesso alcun diritto di appello» (p. 64).
L’umanità – afferma Benedetto XVI – corre oggi il rischio di essere distrutta dall’interno, dal suo stesso declino morale. E ciò nonostante il fatto che oggi si parli spesso di problema morale, per esempio di codici etici ecc. Ma è la coscienza, cioè la sensibilità morale a non essere più coltivata. Non s’insegna a giudicare, si ha paura di esercitare il giudizio della coscienza. Invece che lottare contro questa malattia potenzialmente mortale (la mancanza di moralità, di ascolto della verità e del bene) nonostante tutto il parlare di moralità, l’umanità «fissa, come ipnotizzata, il pericolo esterno, che è solo un effetto secondario della sua malattia mortale interiore» (p. 139). E precisa il papa: «L’uomo è un essere chiamato a rispondere: Per potere agire rettamente il nostro sguardo deve diventare prima di tutto puro e il nostro orecchio aperto. Senza verità non c’è nessun agire corretto. Per questo il desiderio della verità, la ricerca umile e disponibile di essa è il presupposto fondamentale di ogni morale…Anche se la ricerca di ciò che è utile, di ciò che serve al progresso sociale, viene perseguita con buonissime intenzioni, una volta abbandonato il criterio della verità e di Dio, allora essa, inavvertitamente, innalza il potere come misura suprema dell’uomo» (p. 85). In questa prospettiva non ha più senso educare, formare.
In sintesi: la coscienza è un principio impiantato in noi prima di ogni formazione, sebbene l’educazione e l’esperienza siano necessarie per la sua maturazione. Essa è sovrana, ma non autonoma. La coscienza, secondo Newman, possiede il supremo diritto di giudizio a condizione che sia responsabile: «La coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri». E aggiunge Benedetto XVI che «nel concetto di coscienza è compreso un obbligo, quello cioè di aver cura di essa, di formarla e di educarla» (p. 158). «L’anamnesi (la memoria) infusa nel nostro essere ha bisogno, per così dire, di un aiuto dall’esterno per diventare cosciente di sé. Ma questo ‘dal di fuori’ non è affatto qualcosa di contrapposto, anzi è piuttosto qualcosa di ordinato ad essa…e porta a compimento quanto è proprio dell’anamnesi, cioè la sua interiore specifica apertura alla verità» (p. 26). Esiste, agostinianamente, un dialogo permanente tra interiorità ed esteriorità. L’una rimanda all’altra. «Prima del fare, c’è l’ascoltare, la percezione della realtà» (p. 85). L’autorità non va contro la coscienza, ma permette a questa di essere se stessa, di prendere coraggio in se stessa. Solo l’altra persona in quanto autorevole può infondere fiducia alla persona. Con la migliore filosofia contemporanea, l’uomo è sempre “con altri”, la coscienza è in relazione, la coscienza ha bisogno continuamente di testimoni per maturare.
Il Papa elogia la coscienza, intesa come capacità di giudicare del bene e del male. Ma la coscienza va educata. Questo oggi non si sottolinea spesso, perché va contro lo spontaneismo e il culto dell’autenticità spesso assolutizzati. Si parla spesso, infatti, di formazione a tutti i livelli, ma si trascura l’educazione della coscienza. Si teme forse che ciò significherebbe farle violenza. Spesso non si sa più che cosa significhi un lavoro su di sé, un’ascesi. Ma sottolinea già il pagano Aristotele che le “virtù naturali”, non coltivate, non sono vere virtù e non bastano. E anche Tommaso precisa che, benché non si possa non seguire la coscienza, anche quando comanda ciò che è errato, tuttavia si è colpevoli di non averla educata attraverso l’esercizio della virtù. Accade alla coscienza – nota il Papa con un bellissimo paragone – quello che accade quando s’impara una lingua. Come la capacità di parlare è innata, ma per svilupparla e praticarla occorre che qualcuno parli al bambino, così la coscienza è insita in ogni uomo per natura, ma ha bisogno di ascolto di altri, di certi altri per maturare ed essere all’altezza delle sue capacità. La maturazione della coscienza è la maturazione di tutto l’uomo, il che significa razionalità e affettività insieme.