L’appello è stato lanciato pochi giorni fa, il 18 dicembre. Da allora lo hanno ripreso numerosi giornali, convegni, circoli accademici. Ma l’obiettivo è quello di incidere nelle scuole, laddove cioè è urgente che si compia una sterzata improvvisa rispetto all’attuale andazzo. Si tratta della nostra lingua, l’italiano. L’Accademia della Crusca, unitamente all’Accademia dei Lincei e all’Associazione per la Storia della Lingua Italiana (ASLI) ha diffuso il documento “Lingua italiana, scuola, sviluppo”, firmato da Francesco Sabatini, all’interno del quale si denuncia la pericolosa tendenza all’abbandono dell’uso corretto della nostra lingua. La banalizzazione, la semplificazione sintattica e lessicale rischiano di minare le fondamenta della nostra società e della nostra cultura. Abbiamo posto all’autore del documento, nonché presidente emerito dell’Accademia della Crusca, di approfondire alcuni aspetti di questa denuncia



 

Presidente Sabatini da dove è sorta l’esigenza di un appello rivolto alle scuole per salvaguardare la lingua italiana?

Oramai sono anni che si segnalano da più parti le carenze linguistiche degli studenti. E questo riguarda tutti i livelli dell’istruzione, università compresa. Anzi, è proprio lì che il fenomeno viene osservato con maggiore sorpresa. Si tratta di carenze nella competenza linguistica. Non solo non si è più in grado di parlare correttamente ma anche e soprattutto di comprendere i testi e di saper scrivere. Non è da ora che tale allarme viene diffuso. I rilevamenti internazionali OCSE PISA ci informano di quanto sia grave la nostra carenza. Fanno eco i presidi e i rettori delle università che lamentano il fatto che gli studenti di tutte le facoltà hanno scarse capacità linguistiche. Noi della Crusca abbiamo ripreso queste grida di allarme e abbiamo redatto un documento che, sottoposto all’Accademia dei Lincei e all’Associazione degli Storici della Lingua, è stato pubblicato, al fine di sollecitare un repentino intervento.



In quale direzione possono essere rivolti interventi volti a recuperare un uso adeguato e corretto dell’italiano?

In primo luogo occorre stare bene attenti alle cause. Accusare la scuola come unico elemento responsabile dello stato delle cose significa non aver individuato i punti nevralgici del problema. In realtà a preoccuparci è il livello precedente la scuola: ovvero la formazione degli insegnanti di italiano alle università. Quest’ultima è in particolar modo insufficiente e inadeguata. Mancano le basi della linguistica italiana, lo studio dei fenomeni della lingua. È una disciplina che 30/40 anni fa era assente del tutto negli insegnamenti. Poi è finalmente stata introdotta nella formazione dei docenti, ma ancora in misura scarsa. Direi che nella nostra analisi e nel nostro appello per la salvaguardia della lingua, questo elemento, ossia l’aver puntato il dito contro il sistema di formazione, rappresenta la maggiore novità nell’affronto del problema.



Lei ha evidenziato quelle che sono le attuali cause del degenerarsi della nostra lingua. Storicamente invece ce ne sono state altre?

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Dobbiamo tenere conto della situazione specifica italiana, ossia di una comunità che dispone di una lingua molto importante da circa sette secoli. Ma questa lingua è stata ristretta per moltissimo tempo solo a una cerchia sociale limitatissima. Soltanto con l’unità d’Italia ha cominciato a diffondersi il linguaggio italiano. Sono appena 150 anni che questa lingua penetra nella società italiana, nel suo complesso. Quindi bisogna, in un certo senso, dare tempo al processo di italianizzazione. Certo è però che in 150 anni trascorsi con una scuola più attrezzata e più aiutata dalle politiche governative avremmo ottenuto risultati migliori già da tempo. La storia di ogni Paese incide sulla sua lingua e, considerata la nostra storia nazionale, bisogna a maggior ragione che la scuola funzioni meglio di adesso.

 

Ci sono però state, e continuano ad esserci, scuole di pensiero che hanno auspicato la semplificazione del linguaggio. Anche queste sono responsabili?

 

Una certa semplificazione dell’uso della nostra lingua era necessaria e l’aveva auspicata già il Manzoni. Questo perché una lingua come la nostra, conservata soprattutto attraverso la tradizione scritta, accumula molti materiali, molte modalità, molti doppioni di forme e di costrutti sintattici. Quindi quanto più una lingua viene usata vivamente parlando e da una grande massa tanto più ha bisogno di una certa semplificazione per motivi di immediata comunicazione.

 

Quindi in un certo senso è un vantaggio possedere una lingua semplice?

 

Arrivo al punto. La precedente domanda spinge a considerare un altro aspetto che però è negativo, è patologico e non più fisiologico. Nella seconda metà del ’900, quando noi linguisti ci siamo occupati di problemi di comunicazione, di linguaggio ed educazione linguistica, abbiamo un po’ tutti dovuto insistere sulla necessità di abituare all’uso parlato e spontaneo. Forse questo messaggio è stato frainteso. In parte a fraintenderlo furono molti docenti, ma non si sottrassero a questa tendenza anche numerosi esponenti della classe intellettuale. Si provocò così una veloce spinta alla semplificazione eccessiva. Si è marcata troppo l’importanza del parlato che dà vivacità alla lingua e troppo si è trascurata l’importanza della scrittura, che ne dà una forma e ordina i pensieri. Si badi che allora cominciava anche l’epoca della televisione la quale ha fatto tanto bene all’italiano, ma poi si è fermata in questa sua “missione”. Oggi tale mezzo continua a usare una lingua sciatta, bassa e triviale, come denuncia anche Cesare Segre. Tale spinta alla semplificazione diventa nociva anziché positiva.

 

Quali sono i rischi maggiori che la perdita della sintassi e di nozioni di grammatica può comportare?

 

 

La scrittura è in un certo senso una scienza. Anch’essa richiede competenze precise da acquisire a scuola. Lo studio della lingua è un fatto in primo luogo tecnico, indispensabile nelle civiltà complesse. Chiamiamolo pure studio della grammatica, che è un termine un po’ riduttivo, basta che passi l’idea che la riflessione sulla lingua, gli esercizi sulle strutture della lingua, sono necessari per scrivere in modo un po’ più ricco e articolato. E scrivere in modo ricco è indispensabile per pensare in modo ricco, per comprendere in maniera esaustiva il testo cui ci si trova di fronte e soprattutto per comunicare adeguatamente qualsivoglia concetto.

 

Spesso e volentieri si è però affermato, ed è un parere condiviso, che il vero artefice delle trasformazioni linguistiche sia il popolo. Non è dunque una battaglia persa in partenza quella che cerca di salvare il linguaggio da una semplificazione inesorabile?

 

Il discorso sul popolo come arbitro dei cambiamenti linguistici ha due facce. Da una parte occorre ricordare che proprio il popolo, il popolo contadino, recitava Dante a memoria. La Divina Commedia circolava attraverso il popolo arricchendone e non abbassandone il linguaggio. Dall’altra bisogna evitare di elaborare un utilizzo strumentale del concetto di popolo. Oggi non esistono più le realtà rurali di un tempo. Siamo tutti “popolo”, e per questo occorre responsabilizzarci a un uso corretto della comunicazione. Teniamo conto che la lingua di Dante, in circa 700 anni, si è conservata per il 70 per cento in quella odierna. Oggi c’è il rischio che l’accelerazione alla quale siamo sottoposti cancelli assai più velocemente il nostro patrimonio linguistico, con effetti deleteri sulla cultura. Non si tratta di posizioni conservatrici, ma del rendersi conto che qualsiasi evoluzione deve avvenire all’interno di regole. In caso contrario le conseguenze sono sempre nocive.

 

C’è chi, come il dantista Robert Hollander, sostiene la pericolosità della semplificazione del linguaggio in quanto renderebbe gli uomini più propensi a un pensiero superficiale e quindi maggiormente assoggettabili al potere. È d’accordo con questa analisi?

 

In parte sì. Da sempre il potere esercita un predominio anche sulla lingua. Si pensi all’utilizzo sconsiderato della demagogia cui assistiamo quotidianamente nei comizi politici. Ma al di là del contenuto anche la forma risente del potere: dai “paroloni” proferiti durante il fascismo fino alle parole dolciastre di tanta pubblicità. È chiaro che tutto ciò offusca il pensiero e ottunde la riflessione. La scuola dovrebbe essere l’antidoto a questo meccanismo, non tanto per contrapposizione ideologica ma per sviluppare capacità critica e arricchimento individuale rispetto alla massificazione che può venire dall’alto.

 

(Raffaele Castagna)