Suttree non è il nuovo libro di Cormac McCarthy. Meglio dirlo subito, per evitare fraintendimenti o attese esagerate. Suttree è un romanzo scritto nel 1979, quando l’autore americano aveva 43 anni e si era trasferito in Texas da pochi mesi. Questa precisazione è d’obbligo perché posiziona questo titolo all’inizio della parabola umana e artistica di McCarthy invece che ai nostri giorni. Un libro di inizi, un libro che indica subito temi, stile di scrittura, densità, potenza descrizioni. Suttree è un giovane che vive a due passi da Knoxville, Tennesee. Abita lungo il fiume e si barcamena pescando carpe e pesci gatto dormendo in una casa-flottante; si ubriaca ogni week-end e puntualmente finisce in galera a farsi passare sbornie puzzolenti e inconsce. Ha una famiglia, ma l’ha abbandonata e i suoi compari, Callahan, J-Bone, Harrogate, sono peggio di lui, alcolizzati con codici di fratellanza ben precisi. Suttree non ha l’ironia adolescenziale di Huckleberry Finn o forse l’ha persa in galera e nelle sue giornate ci sono bambini di colore che giocano nel fiume e sceriffi, puttane e finocchi, venditori di whiskey, pescatori e cowboy da rodeo. È all’inizio della sua descrizione dell’universo umano, Cormac McCarthy, ma già si posiziona una volta e per sempre, dichiarando il suo interesse unicamente per chi non ha dimora stabile in un qualche palcoscenico della storia sociale. Suttree vive ai margini, disinteressandosi di un qualsiasi scopo che vada oltre la giornata, come se non ci fosse – in fin dei conti – uno scopo che esuli dalla semplice sopravvivenza.
Se l’America rurale nell’Anno Domini 1951 è divisa tra poveracci che vivono in stamberghe cadenti cercando di darsi un contegno e ricchi falsi, moralisti e posticci, a che serve posizionarsi dall’una o dall’altra parte? Meglio lasciarsi vivere ascoltano un po’ di country e tirando alla prossima sbronza con gli amici, altrettanti homeless e avanzi di galera. Fantasmi con una dignità. Gente che nulla può in fondo in fondo scalfire. Il libro in questione è quindi storia di un uomo, Suttree, che non chiede nulla a nessuno, che finisce in episodi di sangue, violenza e morti, per l’inevitabile tendenza dell’uomo a finire nella parte oscura della storia. Non c’è una morale, a parte la conclusione stessa del romanzo, che cioè ognuno è indiscutibilmente unico e gioca le carte del proprio destino, constatazione che avrebbe fatto la felicità di Hemingway. Il tema è vecchio come il mondo, da Omero in poi, ma nelle 550 pagine del suo romanzo, McCarthy lo racconta e lo filma con autorevole impatto, cominciando a farsi conoscere per quella forza descrittiva che diventerà la sua firma sia dal punto di vista dello stile, che della forza iperrealistica nella costruzione degli affreschi: «leggendari storioni dal corpo corneo e pentagonale, pesci gatto e carpe cupree e lucenti come lasche, con il loro ventre pallido e senza spure, una densa fanghiglia tempestata di vetri rotti, ossa e barattoli arrugginiti e cocci di stoviglie venati di crepe nere di fango».
Lo leggiamo oggi in Italia, ma Suttree (pubblicato recentemente) si offre come una delle tappe iniziali del viaggio di Cormac McCarthy. Prima di questo titolo c’erano già stati solo tre libri: l’esordio, Il guardiano del frutteto (1968) Il buio fuori (1968) e Figlio di Dio (1974). Dopo Suttree, McCarthy darà alla luce il suo libro più crudele e violento, Meridiano di Sangue (1985), storia di quanto può essere sadico il male quando viene dall’uomo e lo oltrepassa. Poi verrà l’affascinante e nostalgica “trilogia della frontiera”, con l’immenso Cavalli selvaggi (1992) a raccontare un mondo di giovani cowboy che, come il protagonista John Gardy Cole, finiscono i loro sogni a coltellate, storie in cui sempre di più lo scrittore texano d’adozione si avvicina ai Faulkner, Flannery O’Connor, Caldwell, romanzi in cui la prateria e il suo popolo vivono – tramontata ormai l’epopea romantica del west – qualcosa che sempre di più li avvicina allo scontro ultimo tra bene e male.
Leggendo tutte le opere di Cormac si percepisce il movimento cronologico degli interessi dell’autore: la descrizione di vite quotidiane diventa negli anni metaforica, grondante totalità, senso tragico e senso di destino, approfondimenti ignoti a molti scrittori contemporanei. Tutto questo si affaccia con potenza inquietante in Non è un Paese per vecchi (2005), dove alla violenza quasi metafisica di Chigurgh si oppone solo il senso dell’inutilità dello sceriffo Bell che di fronte all’invadenza del male, altro non può dire che quell’Ave Maria che il film dei fratelli Coen solamente suggerisce in un paio di inquadrature.
Paragonato spesso a Faulkner e Dostoevskij, per la forza di rappresentazione del dramma ultimo, McCarthy ha pubblicato le sue due ultime opere nel 2006: si tratta di Sunset limited e di La strada. Il primo è una piece teatrale per due protagonisti metropolitani, il professore dotto che decide di farla finita e il nero spiantato che gli ha salvato la vita; un dialogo dove tutto ruota attorno al possibile/impossibile senso della vita. Il secondo titolo, uno dei più potenti libri della letteratura contemporanea, è un viaggio verso le estremità dell’umano, compiuto da un padre e da un figlio sullo scenario di un pianeta terra ormai ridotto da una catastrofe, ai suoi minimi termini, tra bande di antropofagi e poveri vagabondi che vagano tra luoghi nascosti di rifugio. Il percorso di Suttree, giovane senza altro pensiero che la sopravvivenza giornaliera, diventa il percorso del figlio nella Strada, che cerca nella sopravvivenza la risposta alla domanda “ma Dio esiste?”.
Son trascorsi trentatré anni da e va da sé che l’interessante attesa di chi legge cada sui prossimi lavori del 76enne scrittore americano che in un’intervista (rarissima, McCarthy non parla mai) di questi giorni, rilasciata al Wall street journal, ha dichiarato essere al lavoro su una storia ambientata nella New Orleans degli anni ’80. Nell’intervista lo scrittore, di origine irlandese, parla anche del suo rapporto con il cristianesimo. «Sono nato in una famiglia irlandese», racconta, «in una di quelle famiglie in cui non si può mettere in dubbio nulla di ciò che riguarda il cristianesimo. Nel tempo ho imparato però che un atteggiamento cristiano può dare significato alla vita. E farti essere una persona migliore».