Nel Giorno della Memoria ebrei e non ebrei si ritrovano con la preoccupazione che la lontananza dagli avvenimenti della Shoah possa rendere sempre più labile il ricordo e che la progressiva scomparsa dei testimoni faccia venire meno il monito morale di quella tragedia.

È un interrogativo importante che si pone David Bidussa nel suo ultimo saggio Dopo l’ultimo testimone, ma rimango del parere che mai come oggi ci sia una discussione ampia e generalizzata sulla Shoah e che quello che Jan Karski (il messaggero della resistenza polacca che cercò invano di allertare le cancellerie occidentali sul genocidio in corso) ha definito come il secondo peccato originale dell’umanità, sia un tale macigno che personaggi squallidi come il presidente iraniano Ahmadinejad non potranno mai rimuovere.



Il problema più complesso nei nostri tempi e su cui la riflessione è spesso carente è di tipo diverso: cosa ricordare e come ricordare? Possiamo infatti fare decine di commemorazioni, ma poi sentire un vuoto accorgendoci di seminare soltanto retorica e parole al vento e di svolgere un rito che ci esime da una responsabilità.



Sì, perché la memoria senza una scelta e una responsabilità ci fa sentire anime candide e mette a posto la nostra coscienza facendoci credere stupidamente che siamo migliori e che di fronte a quelle circostanze saremmo stati capaci di agire diversamente. La memoria come alibi per la propria coscienza è la cosa peggiore.

Abbiamo voluto dedicare la giornata del 22 gennaio a tre figure come Marek Edelman, Vasilij Grossman e Guelfo Zamboni perché ognuno di loro tocca un tema che ci può aiutare ad affrontare questo enigma.

Li abbiamo indicati come un esempio morale da premiare nella nostra città con un albero nel Giardino dei Giusti, perché la loro storia rappresenta uno straordinario esempio di memoria responsabile.



Marek Edelman aveva un posto sicuro nella storia. È stato il vicecomandante della rivolta del Ghetto di Varsavia. Avrebbe potuto diventare un’icona dell’ebraismo, trasferirsi in Israele, e fare il testimone di una pagina immortale: la resistenza degli ebrei che per difendere la loro dignità davanti ai nazisti scelsero di combattere pur sapendo di non avere alcuna speranza di vittoria. Hollywood avrebbe prodotto un film sulle sue gesta, Israele gli avrebbe dedicato una piazza in ogni città e lo avrebbe reso ambasciatore della resistenza indomabile degli ebrei contro gli antisemiti.

Edelman non ha però scelto la strada dell’eroe popolare. Non è stato un sionista, ha deciso di rimanere in Polonia e di fare il custode della memoria in un Paese che era stato desertificato dalla presenza della più grande comunità ebraica d’Europa. «Sono qui», ripeteva spesso, «per fare la guardia alle tombe del mio popolo».

E lo ha fatto in un Paese che fino al 1989 sminuiva l’ampiezza della tragedia ebraica e non amava interrogarsi sull’indifferenza di una grossa fetta della popolazione durante la Shoah. Ha vissuto sulla sua pelle l’antisemitismo popolare e di parte della gerarchia cattolica che accusava gli ebrei sopravissuti di essere diventati la longa manus del potere comunista. E poi nel 1968 ha visto il partito di Gomulka scatenare una feroce campagna politica contro gli intellettuali ebrei, accusati di essere un germe corrosivo del sistema socialista.

Eppure non ha mai lasciato Varsavia, forse perché sperava che i segni di quella tragedia imperdonabile educassero un giorno le nuove generazioni. La storia ebraica in Polonia era irrimediabilmente andata perduta, ma bisognava continuare a credere nella lotta interminabile per la dignità dell’uomo.

La memoria senza un impegno per la salvaguardia dei diritti umani non aveva per lui alcun senso. Così è stato in prima fila nei movimenti democratici che hanno cambiato la Polonia: nel Kor, in Solidarnosc, nel Comitato civico durante la Tavola rotonda che ha portato alla fine del comunismo. E quando è scoppiata la guerra in Bosnia è andato a Sarajevo per portare la sua solidarietà alla città assediata. «Mi ricordate», disse loro con passione, «la resistenza del Ghetto di Varsavia».

Ha detto di lui nella splendida orazione funebre l’emerito Presidente polacco Tadeusz Mazowiecki: «Non ho mai conosciuto un uomo umile come lui, che, dopo avere fatto così tanto permettesse così poco che si parlasse di lui. Parlava sempre degli altri».

E anche lo scrittore Vasilij Grossman ci ha dato una lezione di come si costruisce una memoria responsabile.

In qualità di corrispondente di guerra fu uno dei primi testimoni che visitò il campo di concentramento di Treblinka. A lui si deve la prima documentazione sulla Shoah in Russia in uno straordinario volume curato insieme a Ilja Erenburg, Il libro nero sul genocidio degli ebrei nei territori sovietici occupati dai nazisti. Il volume però venne bloccato e censurato da Stalin che si apprestava a lanciare una campagna antisemita contro i cosiddetti sionisti e non voleva che si desse troppa visibilità alle vittime ebraiche del nazismo. In Urss allora si poteva soltanto parlare delle vittime sovietiche del nazismo. Questo tipo di censura che ritroviamo in differenti forme in tutti Paesi del blocco sovietico ha di fatto impedito che fino al 1989 al di là del muro si avviasse una riflessione sulla Shoah, come è invece è avvenuto nelle democrazie occidentali.

Grossman non soltanto è stato il primo scrittore russo che nei suoi romanzi ha esaminato come Primo Levi il meccanismo della zona grigia e delle complicità della popolazione nel corso del genocidio nazista, ma è riuscito a fare un passo ulteriore che rimane unico nella letteratura mondiale da parte di un ebreo.

Ha paragonato con uno straordinario coraggio il sistema nazista a quello sovietico: in una delle pagine più riuscite di Vita e destino racconta un dialogo tra un comunista e un funzionario nazista, dove quest’ultimo gli spiega in una prigione tedesca che egli non teme la sconfitta del terzo Reich, perché anche se i tedeschi perderanno la guerra in Russia, alla fine il loro sistema politico continuerà a sopravvivere nella sembianze del sistema sovietico. Fra i due sistemi, prosegue, non c’è grande differenza perché hanno in comune l’eliminazione dei “diversi” e il controllo dell’anima delle persone. I sovietici sterminano i kulaki con la stessa bestialità dei nazisti.

Grossman indaga le varie facce del male e si interroga sulle possibilità degli uomini di resistere. Utilizza un termine innovativo: la bontà insensata. E lo contrappone nelle vicende di molti personaggi del suo libro al “Bene universale” dei totalitarismi che in nome di un futuro radioso giustificano lo sterminio degli esseri umani e i peggiori delitti.

Praticate la bontà, amate la vita e difendete il gusto della pluralità degli esseri umani è il messaggio che lo scrittore ci lascia dopo avere sperimentato sulla sua pelle i due totalitarismi del Novecento. È probabilmente questo per lo scrittore russo il fine della memoria: l’eliminazione dell’odio politico e sociale dal cuore delle persone.

La storia di Guelfo Zamboni, il console italiano che da Salonicco occupata dai nazisti riuscì a portare in salvo trecento ebrei condannati altrimenti a morire, ci propone una nuova dimensione della memoria responsabile.

Il bene non ha colore politico, sociale, ideologico e religioso. Non importa il ruolo, la funzione, il credo della persona che lo pratica. È stato questo il grande merito dell’editorialista del “Corriere” Antonio Ferrari che con la sua ostinazione, come i pescatori di perle che tanto piacevano alla Arendt, è riuscito a portare alla ribalta la storia di un funzionario del regime fascista italiano che fu capace di ascoltare la sua coscienza. Nella nostra tradizione culturale troppo spesso il bene è etichettato politicamente. Si giudicano le persone non per ciò che fanno, ma per la loro appartenenza. Così per troppi anni alcune storie di grande umanità sono rimaste chiuse in un cassetto.

Il regime fascista è stato responsabile delle leggi razziali e della persecuzione degli ebrei,ma ci sono stati dei funzionari dello stato italiano che pur servendo il regime hanno aiutato gli ebrei e si sono comportati da uomini giusti. La loro memoria merita rispetto.

Guelfo Zamboni era della stessa pasta di Edelman. Ha salvato decine di vite, ma non ha mai cercato la gloria per se stesso. Non amava la retorica.

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