Il ragionamento che Carron propone come antidoto agli egoismi che la crisi e i suoi postumi rischiano di suscitare è tutt’altro che scontato. A dire il vero, a prima vista, esso appare sconcertante. Infatti, che cosa c’entrano la “fede” o l’”affetto” per trattare questioni urgenti come un dissesto finanziario o l’aumento della disoccupazione? Scandalizzarsi per questi argomenti è un buon indicatore di dipendenza dal pensiero immanentista e neomaterialista che prevale nel nostro tempo. In tale prospettiva, la crisi è solo una questione tecnica che va risolta solo con interventi tecnici. Non che questa dimensione non sia importante. Tutt’altro.



Ma il punto è l’idea implicita che ogni altra considerazione non solo sia inutile, ma – facendo perdere tempo e distraendo dai veri problemi – anche dannosa. Quasi non esistesse altro orizzonte, per la vita dell’uomo contemporaneo, che quello dell’esistenza materiale e contingente. Se così stanno le cose, infatti, non c’è ragione per sostenere alcuno sforzo al di là di una ragionevole concessione a ciò che è strettamente necessario per evitare il peggio. La vita sulla terra è solo uno scontro di potere e il baricentro della questione non può che essere il proprio tornaconto, al più civilizzato – come afferma Carron all’inizio del suo intervento – da “buone regole”. Magari – e sarebbe già un enorme passo in avanti – arrivando a variare l’arco di tempo da considerare, superando l’urgenza del breve termine a vantaggio del medio-lungo termine.



Se si sta dentro tale cornice, la soluzione della crisi consisterà nel tornare a fare quello che abbiamo fatto negli ultimi anni: il massimo che possiamo sperare è rimettere in piedi un modello che ha già mostrato i suoi limiti. Nel discorso di Carron, invece, la crisi è vista come un’opportunità per riaprire i giochi, per rimettere in moto un processo di trasformazione che sia capace di andare nella direzione di una maggiore umanizzazione, attraverso la rinnovata attenzione alla persona umana. Per poter far questo, l’indicazione – che io condivido pienamente – è chiara: occorre rimettere in gioco l’eccedenza della fede.



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Citando don Giussani, Carron dice: “solo Dio è al di là di ogni possibile calcolo”. Frase stupenda che mi fa pensare – da sociologo – alla gratuità che, come ha scritto Luc Boltanski, è esattamente quel tipo di azione che, sospendendo il calcolo, riapre la possibilità di un nuovo ordine sociale. Creando una scansione grazie alla quale è possibile cambiare le regole del gioco. Senza l’eccedenza della trascendenza, questo cambio di passo risulta impossibile e l’uomo si condanna all’eterna coazione a ripetere.

In un tempo intriso di un pensiero neo-materialista e iper-immanentista, l’esperienza della fede è l’ancora di salvezza alla quale dobbiamo rimanere attaccati. Da quale altra origine potrà mai venire un cambiamento che non sia semplicemente inscritto nell’indefinito mutamento tecnico senza direzione? Attenzione, però. Non fede cieca e chiusa, irrazionale e arcaica. Fede cioè del fondamentalista, che – come è ormai evidente – altro non è che l’altra faccia della medaglia del tempo che viviamo. La fede di cui parla Carron e di cui abbiamo bisogno è legame e insieme apertura, disponibilità all’evento e insieme ricerca di senso, capacità di trascendimento e confronto con la realtà.

 

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La fede, cioè, che corre il rischio di lanciare avanti la gamba senza avere ancora la certezza della terra che troverà e che pure è capace di compiere questo movimento perché sa che il suo desiderio di camminare non è campato per aria! Una fede che, grazie a questo suo movimento, ravviva la ragione, accompagnandola al di là delle secche nelle quali finisce per ritrovarsi ogni volta che pretende di sostenersi da sola. Una fede che, senza rimuovere la realtà della storia e del mondo così come sono, rimane però ben consapevole della novità di cui è portatrice.

All’uomo contemporaneo che è spinto a non credere più a niente – disorientato dal flusso continuo di messaggi e stimolazioni a cui è sottoposto e sfiduciato dei tanti tradimenti che nella vita privata e in quella pubblica ha subito o praticato – solo una tale fede, rinsaldata dalla memoria e dall’ esperienza di passi – nostri e di altri – già compiuti, può avere qualcosa da dire. Come in altre epoche storiche, la sfida è, dunque, lanciata. Come ha scritto Paul Ricoeur, infatti, «noi veniamo dalla civilizzazione che ha ucciso Dio, cioè che ha fatto prevalere l’assurdo e il non-senso sul senso. Questo, però, provoca una profonda protesta. Uso questa parola che, nel senso, è vicina alla parola attestazione, perché l’attestazione adesso procede dalla protesta che il nulla, l’assurdo, la morte non sono l’ultima parola.

Questo raggiunge la mia questione sulla bontà poiché la bontà non è soltanto la risposta al male, ma è anche la risposta al non-senso. Nella protesta c’è la parola "testimone": si pro-testa prima di poter at-testare» (Ricoeur, 2000). Davanti alla portata di tale sfida chi ha un po’ di testa per capire non può che impallidire, considerate le nostre modeste forze. Tuttavia, la constatazione che questa fede ha attraversato la storia e che molti uomini in tutto il mondo sono ancora aperti alla sua chiamata può convincerci che non è solo sulle nostre forze che siamo chiamati a fare quel passo.