Ho letto l’intervista al professor Vittadini pubblicata su “La Stampa” del 10 dicembre scorso e vorrei riprendere un paio di passaggi, precisamente quelli dove si parla della Lombardia come di un “crogiolo di popoli” e di Milano come di una città capace di «abbracciare tante diversità in un’identità cristiana». E comincio dal primo dei due.



Non c’è dubbio che la collocazione del territorio al centro di una pianura ben presto resa abitabile e fertile dal lavoro di chi la popolava e a ridosso dell’arco alpino, avesse favorito non solo gli scambi commerciali ma anche e soprattutto l’incontro tra gente di caratteristiche umane e culturali assai differenti.

Però, a spiegare queste “mescolanze” che, in fondo, si sono realizzate senza grandi scompensi e, soprattutto, senza grandi tensioni, concorrono eventi che hanno riguardato più specificamente Milano. Intendo parlare dei momenti nei quali la città assunse le funzioni di capitale di entità statuali che superavano largamente la dimensione locale. Quando nel III-IV secolo essa divenne centro dell’Impero d’Occidente o quando tra la fine del secolo XVIII e gli inizi del XIX fu elevata al rango di capitale della Repubblica Cisalpina, poi della Repubblica italiana e del napoleonico Regno d’Italia: in entrambi i casi si verificò l’inserimento nella realtà urbana di una compagine, numericamente consistente, di soggetti appartenenti a differenti segmenti della struttura sociale e provenienti da ogni parte d’Italia e d’Europa, attratti dalle nuove funzioni assunte da una città diventata sede del governo di realtà politiche di non piccola rilevanza.

Dal punto di vista dell’integrazione “pacifica” di popolazioni “straniere” non è possibile ignorare il fatto che nel VI secolo si insediò nella regione un popolo “barbaro” come quello dei Longobardi, anche perché, questa volta, la “pacificità” dell’insediamento avvenne in conseguenza soprattutto della conversione al cristianesimo avvenuta nell’ambito di una Chiesa che un paio di secoli prima era stata riformata e modellata da un grandissimo vescovo di nome Ambrogio; un evento, questo, di grande importanza per la sua capacità di integrare culture differenti unificandole sulla base della comune fede religiosa.

In realtà un po’ tutta la storia della regione è ricca di momenti nei quali nel tessuto sociale preesistente si inserirono “stranieri”. Già il professor Vittadini ha citato i francesi, gli spagnoli, gli austriaci come esempi di “mescolanze” determinate principalmente da eventi di natura politica, ai quali vanno aggiunti non i fatti straordinari come quelli indicati, ma le vicende della quotidianità, ossia il normale svolgersi della vita delle persone e delle comunità.

Ad esempio va aggiunto l’effetto “integrazione” di un secolare consolidarsi di rapporti economici con città, paesi e continenti: Ginevra, Avignone, Lione, Parigi, Norimberga, Londra, la Spagna, l’Africa, perché da quei rapporti fu acquisita spontaneamente la capacità di interagire con soggetti “altri” rispetto all’ambiente sociale e perfino fisico dal quale uscivano i milanesi e i lombardi impegnati nei traffici.

 

In tema di formazione della capacità di convivere, ossia di vivere pacificamente e nel rispetto reciproco, con soggetti diversi, una funzione “pedagogica” analoga a quella esercitata dai mercanti, dai produttori e dai lavoranti che si muovevano da e per Milano e la Lombardia, va attribuita alle migrazioni temporanee, un fenomeno ben noto agli studiosi, un fenomeno del quale furono protagonisti numerosissimi lombardi dal medioevo in poi.

E, a proposito di “mescolanze” del passato, realizzatesi senza grandi problemi, non è possibile dimenticare che tra il 1901 e il 1915, a Milano entrarono circa 300mila persone di cui 200mila provenienti da “altre province del Regno e dall’estero” su una popolazione che negli stessi anni era cresciuta da 540mila a 650mila abitanti. Sicché il professor De Maddalena ha potuto scrivere che «la capitale lombarda acquista, dunque, crescente importanza come centro di sbocco di correnti affluenti da località distanti» e, quindi di persone portatrici di altre culture.

Non di meno, le cronache non segnalano alcun problema di qualche significato, segno evidente della capacità della città di incorporare pacificamente i “nuovi milanesi”. Dire questo, dire cioè che l’inserimento di “esteri” nella compagine urbana preesistente avvenne senza gravi problemi in quegli anni come, del resto, nel secondo dopoguerra, non significa ignorare i problemi attuali, anche perché le differenze culturali sono incomparabilmente “altre” e le regole e i sistemi di sicurezza di allora più coerenti con le situazioni. Ciò che voglio dire riguarda, invece, la capacità di rispondere adeguatamente alle “cose nuove” determinatesi in conseguenza di mutamenti dovuti a cause esterne all’ambiente.

A questo proposito, Vittadini ha fatto un’affermazione di grande rilevanza quando ha detto «la forza di Milano è stata, storicamente, quella di abbracciare tante diversità in un’identità cristiana».

Convengo nel riconoscere questa capacità. La mia tesi è che sia derivata principalmente da principi di ordine morale trasmessi e recepiti attraverso la famiglia, la scuola, le associazioni, in particolare quelle religiose. Principi che, assunti a guida e orientamento dell’azione nella società, esprimono l’idea cristiana dell’uomo come di un essere creato da Dio a sua immagine e somiglianza, destinato alla vita eterna, membro di quella famiglia umana di cui scrive Benedetto XVI nella recente enciclica Caritas in veritate ai numeri 53-55, titolare di quei diritti inalienabili che Giovanni Paolo II ha indicato nella Centesimus annus al n. 47.

Ora, l’insieme delle esperienze maturate da secoli nel sociale: dall’aiuto ai bisognosi, all’educazione, alla sanità fisica e psichica, esperienze che hanno toccato tutta la comunità lombarda in modi diversi e in misura più o meno ampia, sono da considerare espressione di quell’idea di uomo. È Danilo Zardin a dire che «Nutrite […] dalle forze più robuste della comunità sociale, potevano attingere sempre a nuova linfa le molteplici istituzioni, di primario prestigio come di più modesto rilievo solo locale che, dovunque, costituivano la rete di appoggio e l’ambito privilegiato di inquadramento dell’offerta caritativa».

 

 

Così, ancor prima che i concetti fossero elaborati, la capacità di legare solidarietà e sussidiarietà che Benedetto XVI ha indicato come «regola di carattere generale [da tenere] in grande considerazione» quando si affronta il tema dell’aiuto al prossimo come singolo e come comunità, fu ampiamente e concretamente sperimentata nella realtà lombarda.

Se alle iniziative nel sociale si aggiungono quelle nel settore strettamente economico come la cooperazione, che rappresenta un modello di democrazia economica e, dunque, di democrazia tout court, si ha chiara la percezione che è esistita ed esiste nella società lombarda una capacità di risposta ai bisogni emergenti di una società complessa che non esclude ma, al contrario, allarga l’ambito degli interventi ai nuovi bisogni e ai nuovi bisognosi, senza guardare troppo alle caratteristiche dei soggetti, proprio perché, a monte, vi è la consapevolezza che essere cristiani autentici significa seguire gli insegnamenti di Cristo che ha indicato il “prossimo” in colui il quale è in condizioni di bisogno a prescindere dalla “tribù” di appartenenza. 

Questa disposizione all’impegno a favore del “prossimo”, almeno nell’esperienza lombarda, è soprattutto il risultato della riforma della Chiesa, e non solo di quella ambrosiana, attuata da San Carlo Borromeo quando fu insediato alla cattedra di S. Ambrogio e divenne Metropolita delle Chiese di Lombardia. Sappiamo bene, infatti,  che il momento più significativo della riforma stessa, carico di conseguenze per la formazione di quella disposizione, fu la decisa volontà di ripensare, per rinnovarla, la figura del sacerdote per collocarla in una dimensione propriamente pastorale. Si trattò di scegliere preti di altissimo livello morale, di buona preparazione teologica, dotati di un’almeno minima base culturale e soprattutto disposti a stabilire rapporti continui di prossimità con i fedeli. Una prossimità che aveva i suoi strumenti materiali e ideali nella parrocchia, nell’obbligo di residenza imposto al parroco e nell’educazione religiosa, da realizzarsi nelle scuole della dottrina cristiana, presenti da secoli ma pienamente rivalutate dalla riforma del Borromeo.

Una prossimità che si realizzava anche attraverso la moltiplicazione delle confraternite che «reclutavano una porzione ingente della popolazione soprattutto adulta e maschile. La coinvolgevano nella pratica di un culto cristiano più stringente e proponevano, in mezzo alla massa dei fedeli, uno stile di relazione con i propri simili ispirato a un codice di disciplina e di responsabilità». Confraternite nelle quali «mettevano radici nuovi organismi a cui si dava vita per fronteggiare le urgenze primarie della collettività sociale: ospedali, scuole per l’insegnamento del catechismo, e per l’istruzione elementare estesa ai ceti economicamente meno dotati, forni, mulini, case di ricovero per orfani e donne “pericolanti”, santuari, luoghi di culto, monti per il prestito agevolato o per la distribuzione di doti, di sementi, di attrezzi da lavoro».

Con due notazioni, importanti per la specificità delle esperienze maturate in Lombardia; la prima è che, come dice Zardin, «l’attività e le opere delle confraternite si collocavano più nell’assunzione della logica creativa di responsabilità volontarie dal basso che non in quella della supplenza sostitutiva nei confronti di un potere pubblico carente»; la seconda è che le linee di svolgimento del magistero di Carlo Borromeo furono condivise e recepite da altri vescovi delle diocesi lombarde.

Nel quadro di un’azione pastorale che trovava nella parrocchia il «punto di riferimento per la comunità non soltanto religiosa ma anche sociale e civile», il vescovo Carlo, nella costante tensione alla conoscenza delle condizioni morali e religiose dei fedeli, non mancava di considerare alcuni aspetti della vita delle comunità per gli evidenti rapporti fra le diverse dimensioni. Di qui la preoccupazione di indicare, scrive Ada Annoni, «a guida dell’agire degli uomini che detenevano il potere secolare […] quelle virtù cardinali che dovevano ispirare sempre i comportamenti umani ossia Giustizia, clemenza, fortezza, temperanza». Non è difficile immaginare come l’educazione religiosa e l’alfabetizzazione fossero l’occasione per trasmettere valori rilevanti per la vita economica e sociale e per il “buon governo” delle organizzazioni pubbliche. Ciò che va sottolineato è che «la preoccupazione principale delle opere educative lombarde sorte in età moderna era sostanzialmente quella di formare la “persona” dal punto di vista sociale e professionale”, sicché “la considerazione della persona come fattore essenziale per incidere sulla società, l’attenzione alle esigenze poste in luce dalla realtà sociale, la capillarità della presenza e l’adattamento alle situazioni, la capacità di interpretare il mutamento, uno straordinario dinamismo sono caratteristiche fondamentali dell’attività educativa in Lombardia».

 

 

Da ciò la nascita di una molteplicità di organismi dedicati a iniziative caritative di ogni genere generati dal «prepotente riemergere […] degli impulsi di un senso religioso fortemente segnato dalla rivalutazione cattolica delle opere» e «il richiamo all’ideale della carità fraterna e ai doveri del soccorso elemosiniero ai bisognosi, concepiti non come l’esito di un amore filantropico finalizzato a debellare i mali sociali ma come mezzo per elevare innanzitutto se stessi, purificando il proprio io e dischiudendolo all’amicizia di Dio».

Da ciò anche la formazione di un clero i cui caratteri fondamentali sono descritti da Giorgio Rumi e da Edoardo Bressan nella biografia di un grande prete milanese del Novecento, don Carlo Gnocchi: «un sacerdote ambrosiano, uscito dalla collaudata macchina dei seminari diocesani messa in piedi dal grande Borromeo. Non è un monaco, dunque, ma un “secolare” segnato, fin dalla giovinezza dalla sua vocazione, da un forte indirizzo pastorale. Come i suoi colleghi risente dell’antico monito impartito ai giovani preti diocesani, dover essere patres, non domini […] La regione […] ha un capillare insediamento ecclesiale, fatto di “cellule” costituite da uno o due preti (i pastori) immersi nella popolazione (il gregge) fin nelle più oscure vallate e in ogni angolo della pianura […] La porzione di popolo che gli è affidata è la sua gente, di cui con l’andar degli anni diventa conoscitore assoluto, amico fidato, consigliere nelle difficoltà e maestro di etica, oltre che uomo della Parola e ministro dei sacramenti». E questa osmosi tra prete e fedeli resiste nel tempo e anche nel Novecento «la gran maggioranza del clero resta saldamente radicata nel territorio, rappresentando uno snodo efficace nel rapporto vertice-base ecclesiale su cui a suo modo s’è affaccendata tanta storiografia».

È  dunque la fede e la verità sull’uomo ad animare l’azione sociale ed economica e a dare senso alle opere perché, più o meno consapevolmente, diventavano strumento di santificazione personale. Questo spiega il permanere nel tempo di un approccio alla vita attiva e la resistenza “alle perturbazioni dell’ordine tradizionale” manifestatesi nel tempo.

E proprio perché si trattava di «un patrimonio rimasto vitale e ampiamente condiviso, si comprende più facilmente come tutta questa florida tradizione di opere, di coinvolgimento personale e di gruppo nell’elargizione della pubblica beneficenza, di passione ideale e religiosa per la promozione del bene collettivo, non potesse dilapidare la sua ricchezza interna e svuotarsi totalmente dei suoi contenuti quando cambiarono gli equilibri dei rapporti tra potere civile e giurisdizione della Chiesa [e] tutto questo non impedì che il lascito del capitale umano modellato dalla lunga storia della carità tradizionale si trasmettesse almeno come lezione morale e suggerimento di metodo alla modernizzazione contemporanea».

E queste sono anche le radici di quella capacità di «abbracciare tante diversità in un’identità cristiana» da cui siamo partiti nella prospettiva di raccogliere le sollecitazioni implicite nella citata intervista di Giorgio Vittadini.