Le battute dei suoi capolavori frullano in testa, chiassose e invadenti come palline di un flipper e le sue opere mettono in scena il destino dell’uomo prigioniero del perenne disagio esistenziale. Il suo teatro descrive la condizione umana intrappolata nell’impossibilità di trovare una via d’uscita al non-senso dell’esistere e lo spettatore, spaesato nel buio della platea, fatica a trovare un filo che lo conduca fuori dal labirinto del testo. Chi assiste ai suoi spettacoli si trova di fronte ad un muro di trame intricate dove sembra non comparire nessuna via d’uscita. Sono alcuni tratti del Teatro dell’Assurdo di Eugene Ionesco; il grande drammaturgo francese che avrebbe da poco compiuto cent’anni e che non molti teatri italiani hanno ricordato. Ionesco nasce in Romania il 26 novembre 1909 e si trasferisce da piccolo con la sua famiglia a Parigi dove, fino all’anno del debutto de La cantatrice calva vive lavorando in una piccola casa editrice. Nel 1971 riceve una vera e propria consacrazione ufficiale con l’ingresso nell’Académie Française. La sua ricca produzione ha segnato profondamente l’evoluzione dei teatri francesi e di quelli di tutto il mondo. Muore nella sua cara e odiata Parigi, nel marzo del 1994.



A me capitò di sentirlo parlare in un salone della Fiera di Rimini alla fine dell’agosto 1988. Come un dimesso professore universitario raggiunse il tavolo. Si sedette. Parlava francese. Con voce pacata e monocorde, raccontava fatti e scoperte della sua vita vissuta tra la scrittura e il teatro. Convincente e rassicurante come un padre, chiariva concetti oscuri e impenetrabili come pece. Le sue parole illuminavano operatori del settore, giornalisti e mesi e mesi di prove sul palco. Prendevo appunti, tutti prendevano appunti: “io scrivo nella notte e nell’angoscia con l’illuminazione, di quando in quando, dello humour. Ma non è questa luce, non è questa l’illuminazione che cerco. Tutti i miei libri, tutte le mie commedie, sono un richiamo, l’espressione di una nostalgia: io cerco un tesoro sprofondato nell’oceano, perduto nella tragedia della storia. O, se volete, è la luce che cerco e che a volte mi sembra di ritrovare. La commedia, o la confessione intima, o il romanzo restano tenebrosi, se non sbuco all’estremità delle tenebre, nella luce. Il mondo può essere comico e ridicolo, può anche sembrare tragico: in ogni caso non è divertente. Niente è divertente. Non si è mai compreso che il tema del nostro teatro è proprio questo: l’assenza di Dio e la Sua ricerca”.



 

Non sembra possibile che uno dei padri fondatori del Teatro dell’Assurdo possa aver pronunciato queste parole. Per anni la critica mondiale ha esaltato e divulgato i temi ricorrenti della sua poetica costruita sull’isolamento dell’individuo, sulla destrutturazione del linguaggio e sullo sbriciolamento della consequenzialità lineare del racconto teatrale. Addirittura con Le sedie, una delle sue opere più intense e innovative, per la prima volta nella storia del teatro, troviamo come assoluto protagonista della scena, un oggetto. Le sedie del titolo rappresentarono un segno concreto del senso di vuoto che l’autore comunica. E questo testo divenne uno dei manifesti del Teatro dell’Assurdo insieme ad Aspettando Godot di Beckett e a Terra di nessuno di Pinter.



Ma a Rimini il grande scrittore aprì una breccia e cambiò totalmente la prospettiva per avvicinarci ad un nuovo senso e ad una ulteriore definizione del suo teatro. Un’ovazione di circa dieci minuti di applausi accolse questa improvvisa e nuovissima definizione di un teatro che fino a quel momento era il Teatro dell’Assurdo e che da quel mese di agosto in poi è il teatro della domanda: "Rifiuto categoricamente l’etichetta di Teatro dell’Assurdo. Il mio teatro ha sempre voluto dire qualcosa. È la gente che non lo ha letto, o che non ha capito nulla quando lo ha visto, che si attacca a questa formula. Il mio teatro è un SOS, un grido permanente che esprime il disagio della condizione esistenziale dell’uomo separato dalla trascendenza. La vita ha una sua drammaticità, e il mio teatro non vuole scacciare l’angoscia. Tenta di renderla familiare, perché la si superi. Scrivo, quindi, per ricordare alla gente questi problemi, affinché gli uomini diven­tino coscienti, siano sempre svegli, non di­mentichino lo stupore e la mera­viglia di esistere e il miracolo del mondo. Scrivo per far udire il grido d’angoscia a Dio e agli altri uomini. Tutto il resto è secondario".

 

Poi si tolse i grossi occhiali da vista, li appoggiò sul tavolo, se li rimise e, in un attimo, creò un nuovo mondo e un nuovo corso per la scena. Lui, in prima persona, affrontando il dramma e rendendolo, così, affrontabile per tutti, pronunciò queste parole con sorprendente sincerità e con semplice autorevolezza. Ed ecco lo sterminato consenso di tutti i presenti, che battono le mani e si alzano in piedi commossi. Il non-senso e l’assurdo consistono nel non fare più nessuna domanda, nemmeno a se stessi. È questo che Ionesco ha gridato nell’agosto del 1988. E domandare è già, in qualche modo, una risposta.